Il 31 dicembre 2019 l’ufficio di Pechino della WHO, la World Health Organization, l’organizzazione dell’ONU che si occupa di sanità, venne informato di alcuni casi di polmonite scoperti nella città di Wuhan, nella provincia dell’Hubei, in Cina. Il 3 gennaio 2020 i casi accertati erano 44 e la causa, un nuovo tipo di Coronavirus, fu isolata il 7 gennaio. La sua sequenza genetica venne condivisa per scopi di studio il 12 gennaio: diventava ufficiale il COVID-19 (COronaVIrus Disease 2019). Il 13 gennaio il governo della Thailandia rendeva noto il primo caso di COVID-19 al di fuori della Cina, il 15 gennaio era la volta del Giappone.
Oggi il Giappone sta affrontando la terza ondata; i dati più recenti, al 22 novembre, danno 2.514 contagiati al giorno e 11 (undici) decessi. In Italia sono stati 34.764 contagiati e 692 morti.
Si dice che il nostro elevatissimo numero di morti – siamo il 6° paese al mondo per decessi totali, ieri eravamo il quarto – sia dovuto ad una popolazione con una età media molto elevata. Ebbene, l’Italia ha il 7,38% della sua popolazione con più di 80 anni (l’8,69% il Giappone) e 80 morti ogni 100.000 abitanti. Il Giappone ne ha 2.
C’è qualcuno, ente governativo, università, che sta facendo un’analisi seria delle prassi internazionali che si stanno dimostrando più valide nel combattere la pandemia, per provare ad adattarle alla condizione italiana, o stiamo semplicemente navigando a vista?
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