Precisione semantica e normativa oscura: riflessioni sul caso del RLS condannato

Innanzitutto, vorrei spendere qualche parola sulla dinamica dell’incidente. Come è noto, in ambito giuridico le indagini hanno come obiettivo quello di definire innanzitutto se è stata violata la legge, e poi, in questo caso, chi è stato responsabile di questa violazione. Chi si occupa direttamente di sicurezza, invece, non cerca responsabili ma ha come obiettivo individuare non solo la violazione, ma da qui le cause che l’anno provocata o resa possibile, per modificare i processi per ottenere il risultato di impedire che la non conformità si ripeta. Ebbene, la scena descritta dagli atti è quella di una totale sciatteria organizzativa: tutti fanno tutto, nessuno sa bene cosa fanno gli altri, e nessuno controlla cosa viene fatto. Un sistema di organizzazione autarchico/anarchica, che troppo spesso vedo nelle nostre aziende. Le persone, i processi lavorativi riescono bene o male a tenere sotto controllo i pericoli solo perché le sicurezze sono ridondanti: un minimo di alfabetizzazione lavorativa di base, un poco di buonsenso e una certa disponibilità economica che rende attrezzature di lavoro abbastanza sicure piuttosto diffuse, fa sì che ci voglia un poco di impegno a farsi male. E infatti, sotto un certo aspetto queste sentenze sono tutte uguali: la descrizione dell’incidente trasuda un livello tale di sciatteria organizzativa, che desta sorpresa che sia avvenuto solo quell’incidente. Il disegnatore faceva anche il magazziniere, tutti usavano il muletto senza addestramento, gli scaffali erano stati scelti e installati in maniera discutibile eccetera eccetera. Nel caso specifico, però, un funzionario ASL mette a verbale che si tratta del terzo infortunio mortale occorso in azienda di recente: prima di questo c’è stato un socio schiacciato da un silos e un lavoratore morto in una esplosione durante una saldatura.

In questa circostanza non ha destato sorpresa la condanna del datore di lavoro, quanto quella del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza: la sentenza di secondo grado gli attribuisce la colpa specifica, correlata alla violazione dell’articolo 50 del Decreto Legislativo 81 del 2008, dal titolo “Attribuzioni del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”. La colpa generica riguarda una mancanza di diligenza generale che si applica a situazioni comuni, la colpa specifica è associata a una negligenza o imprudenza in relazione a doveri o obbligazioni specifiche in contesti particolari, in questo caso quelle derivanti dalle prescrizioni del Testo Unico sulla Sicurezza sul lavoro.

E se il sindacalista va al mare?

Come ho provato a spiegare qualche riga sopra, per inclinazione personale e professionale, sono portato ad approfondire “le cause” di quello che non mi torna, e questa sentenza non mi torna per niente. Ma come! Abbiamo sempre ascoltato e ripetuto nei corsi che il ruolo del RLS è di rappresentanza e di salvaguardia del lavoratore, quasi come un rappresentante sindacale! Sarebbe mai possibile condannare un sindacalista perché, invece di rappresentare i lavoratori, va in spiaggia? Ci deve essere un fraintendimento, qualcosa che non ha funzionato. Un collega mi ha passato la sentenza di secondo grado e il fraintendimento è lì sotto gli occhi di tutti, esattamente come nella sentenza di Cassazione, che la conferma. Personalmente, ritengo che parlare di “compiti del RLS” sia un errore concettuale, un grande fraintendimento.

Durante i corsi di formazione si ripete da ormai quasi trent’anni, che le diverse parole che la legge usa individuano differenti tipi di aspettative nei confronti dei soggetti cui ci si riferisce. Alcuni di questi hanno “obblighi”, come il datore di lavoro, i dirigenti, i preposti, i lavoratori eccetera. L’obbligo è un comportamento la cui violazione è sanzionata dal Testo Unico stesso. Si osserva sempre che il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione non abbia “obblighi” ma “compiti”, e questo marca la differenza del grado di aspettative sul suo operato. Non avere svolto il proprio “compito” non espone questa figura ad una sanzione del TU, che, infatti, non ne prevede. In effetti, se si va a vedere, è il datore di lavoro il soggetto che viene sanzionato se il RSPP non fa il suo mestiere. I “compiti”, però, sono sufficienti a creare un livello di aspettative tale per cui è possibile istruire un capo di imputazione per delitto colposo per colpa generica in relazione, se queste vengono deluse.

In sostanza, se un RSPP valuta malamente i rischi, viene sanzionato il suo datore di lavoro. Se però, a causa di una valutazione dei rischi superficiali, un lavoratore si fa male, il datore di lavoro può essere imputato per lesioni o omicidio colposo, per colpa specifica, il che significa che il nesso causale prende origine o coinvolge inestricabilmente la violazione dell’obbligo, in questo caso, di valutare i rischi. Anche il RSPP può essere imputato di lesioni colpose o omicidio colposo, questa volta per colpa generica, che significa che saranno considerate le qualità professionali e gli atteggiamenti che ci si attenderebbe da un RSPP ragionevole in quella medesima posizione: la sua perizia, la sua diligenza o la prudenza adottata.

L’opinione è che la sentenza di secondo grado trascuri la precisione semantica che sarebbe consigliabile utilizzare in questi casi, anche perché la norma è oscura e involuta di suo. L’RSPP è il “Responsabile sicurezza prevenzione e protezione”, si parla di “Kg Newton” (o chilogrammi o Newton) e, leggendo, si comprende che il DVR viene considerato non uno strumento di pianificazione, ma un “catalogo dei rischi”. In sostanza, non viene approfondito se la situazione che ha portato all’infortunio fosse stata analizzata e gestita, interrogandosi se le modalità previste fossero adeguate e al livello degli standard industriali (art. 2087 CC docet). Ma l’imprecisione più grande è quando si parla di “compiti del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”.

Obblighi o assegnazioni? Colpa specifica o colpa generica?

Si è detto che il D.Lgs. 81/2008 attribuisce generalmente “obblighi”, e che fa eccezione per il RSPP, a cui attribuisce “compiti”. Il RLS non ha né compiti né obblighi: il RLS ha attribuzioni. E che cos’è questa attribuzione? In primo luogo, una cosa che si chiama “attribuzione”, ragionevolmente non sarà né un obbligo né tantomeno un compito, altrimenti non si chiamerebbe così. Un criterio generale dell’interpretazione della legge dice che, quando una parola non è definita all’interno dell’ambito in cui deve essere utilizzata, come ad esempio nelle “definizioni” presenti nell’articolo 2 del D.Lgs. 81/2008, allora si usa il suo significato letterale, che, in questo caso è sinonimo di assegnare. L’etimologia di questo termine viene fatta risalire ad a-tribúere che propriamente significa “dare” o “spartire”. Quindi il RLS non ha obblighi o compiti, ma ha assegnazioni. Al RLS “è dato”. È dato cosa? È dato il contenuto della lista dell’articolo 50: è dato accedere ai luoghi di lavoro, è dato essere consultato, ricevere informazioni. Datori di lavoro e dirigenti sono destinatari degli obblighi – fateci caso – di fare funzionare l’articolo 50 (art. 18 c. 1 lett. s), mentre la norma non prevede punizioni se il RLS non “prende”: il Capo IV, Sezione I, infatti, prevede punizioni per la violazione degli obblighi a carico del datore di lavoro, dei dirigenti, dei preposti, dei lavoratori, ma non per il RLS.

In sostanza, la sentenza di secondo grado, e la Corte di Cassazione ha confermato, che il RLS viene condannato per colpa specifica rappresentata dalla violazione “degli obblighi di cui all’articolo 50”, che però non esistono, in quanto la legge mette a suo carico una cosa diversa, le attribuzioni. Nell’economia del TU il mancato rispetto di queste non è considerato un comportamento antigiuridico, e la dimostrazione è che non sono sanzionate. Nei commenti qui su LinkedIn si sono lette tante opinioni, ad esempio c’è chi ha detto che ci sta comunque una condanna per colpa generica: in fondo era un RLS “di plastica” che addirittura faceva parte del consiglio di amministrazione dell’azienda. No. La condanna è per colpa generica sulla base di una violazione inesistente, e comunque credo sia illogico prendere le attribuzioni – il mancato esercizio di diritti – come fondamento di un capo di imputazione per colpa generica. Altri hanno, con più o meno entusiasmo, applaudito al cambio di prospettiva della suprema corte, chi disorientato, chi entusiasta delle nuove magnifiche sorti e progressive che contribuiranno senz’altro a migliorare la protezione dei lavoratori. Modestamente, penso che la legge debba ancora essere applicata del tutto e che, siccome si tratta di concetti che hanno funzionato meglio in tutto il resto di Europa rispetto che in Italia, magari sarebbe il caso di provarci, prima di pensare a cambiare.

Due parole sui commenti alle sentenze

Qualcuno dice che le sentenze non si commentano. In realtà la legge viene commentata, forse da quando iniziò ad essere scritta. Si tratta di un artefatto umano, che eredita l’imperfezione dal suo artefice, per cui le sentenze si commentano per migliorare come viene applicata la legge. Qualcuno si è dimenticato di quando il CSE era il “perno della sicurezza”? Altri sostengono che solo gli avvocati o persone con una formazione giuridica possono permettersi di commentarle, perché soli depositari di una conoscenza specifica. E anche qui dissento: uno dei motivi per cui la legge iniziò ad essere scritta è per fissarne e renderne bene comprensibili i contenuti, sottraendoli all’arbitrio dei sacerdoti prima e dei re dopo. Qualsiasi cittadino deve sentire che è possibile commentare un atto giuridico, anche perché spetta a lui valutare i legislatori, per destinare il proprio voto. Si chiama democrazia. Certo, sarebbe il caso che gli argomenti proposti fossero ponderati e bisognerebbe esprimere la propria opinione solo se è sensata. Spero sia questo il caso di queste righe.