In Italia, secondo l’Istituto Centrale di Statistica, ISTAT, la dimensione media delle imprese è di 3,8 addetti; un po’ più elevata nell’industria (5,8) che nei servizi (3,2) . Inoltre, l’adozione di nuove normative o il cambiamento di quelle esistenti può comportare un impegno di tempo e risorse per adeguare le attività aziendali alle nuove disposizioni.
Il sistema di sicurezza e salute sul lavoro (SSL) in Italia è disciplinato da un impianto legislativo basato sulla legislazione comunitaria e nazionale, nonché sui contratti collettivi nazionali e aziendali. La principale carenza dell’impianto legislativo italiano in ambito di SSL è legata alla difficoltà di garantire il miglioramento nel tempo delle prestazioni relative alla sicurezza delle imprese.
Il nostro Paese, infatti, da decenni presenta sempre le stesse statistiche mediocri di incidenti e infortuni. Inoltre, l’adeguamento delle attività aziendali alle normative e standard in materia di SSL può comportare un impegno di tempo e risorse per le imprese che queste non si possono permettere, a causa della loro dimensione e della cattiva qualità della norma stessa, che non ne facilita l’applicazione e a causa anche di importanti freni culturali.
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Nella foto, la Dhobi Ghat la più grande lavanderia a cielo aperto di Mumbay.
Scritto assieme a Helmut Lansbergen, consulente, auditor ISO 9001, ISO 28001, ISO 45001 e SA 8000 e docente.
Il termine inglese dumping individua la pratica commerciale scorretta di immettere sul mercato beni o servizi a prezzi che non coprono i costi per la loro produzione, in modo da manipolare il mercato. Il dumping sociale è il mancato rispetto delle leggi in materia di sicurezza, diritti del lavoratore e tutela ambientale, che consente a un’impresa di ridurre i costi di produzione e quindi di vendere le proprie merci a prezzi molto più bassi di quelli di mercato.
Sweatshop, è un termine della lingua inglese, testimoniato a partire dal 1892 per indicare luoghi di lavoro caratterizzati da condizioni povere, insicure e socialmente inaccettabili. In particolare, è interessante constatare che il termine sweat non indica solo il sudore, ma nel XIX secolo ha assunto anche il significato di lavoro pesante sottopagato.
Le buone prassi internazionali, i concetti ESG, hanno iniziato quindi a responsabilizzare le grandi organizzazioni che, essendo al vertice della propria filiera produttiva, hanno approfittato, a volte bassamente, dell’esternalizzazione dei processi produttivi, affidando la produzione ai cosiddetti sweatshop situati in paesi stranieri a bassissimo reddito, in modo da lucrare enormemente sui vantaggi economici generati dal rivendere le merci prodotte in economia, a caro prezzo nel primo mondo. Per la legge del contrappasso ora l’opinione pubblica e la legge, più o meno timidamente, chiedono loro di rendersi garanti delle condizioni lavorative non solo dei lavoratori che sono assunti direttamente da loro, ma anche e soprattutto di quelli impiegati lungo la catena di forniture, in milanese moderno supply chain: tutti coloro che sono coinvolti nei processi produttivi: appaltatori, subappaltatori e fornitori.
Al COP 27, la ventisettesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si è appena tenuta a Sharm el-Sheik, in Egitto, ISO, International Organization for Standardization, la più importante organizzazione mondiale per la definizione di norme tecniche, ha presentato le Net Zero Guidelines, un documento che si pone l’obiettivo di fornire i principi guida e le raccomandazioni per un approccio condiviso che possa essere utilizzato dalle organizzazioni per raggiungere l’obiettivo net zero per le emissioni di gas serra (Green House Gases, GHG).
I gas serra sono responsabili dell’aumento della temperatura del globo. Consentono l’ingresso della radiazione solare all’interno dell’atmosfera, ostacolando la dispersione della radiazione infrarossa dal nostro pianeta nello spazio. Questo fenomeno fu riconosciuto già all’inizio del XIX secolo: il fisico e matematico Joseph Fourier, studiando la trasmissione del calore, capì che, senza l’atmosfera, la temperatura media del nostro pianeta sarebbe di circa -18°C, e quindi oltre trenta gradi in meno di quella reale.
Sembra che questa sarà solo una prova generale per una prossima direttiva comunitaria. Un altro passo per conformare la produzione legislativa ai temi ESG.
Il termine ESG è stato utilizzato per la prima volta come acronimo di Environmental, Social and Governance, alla conferenza promossa dal UN Global Compact, il patto mondiale delle Nazioni Unite Investing for Long-Term Value, investire per valore a lungo termine, a Zurigo, in Svizzera, nell’agosto del 2005.
L’alba del XXI secolo sembra riprendere temi che erano già stati affrontati un secolo prima. Il mondo però presenta anche grandi differenze. Innanzitutto, la crisi ecologica che stiamo vivendo: oggi solo chi non vuole vedere l’evidenza può negare i sintomi del cambiamento climatico che ci circondano. Il mondo in cui siamo nati e cresciuti sembra essere veramente a rischio e un cambiamento di paradigma nel nostro modo di vivere non è più una questione di ideologia, ma probabilmente di sopravvivenza. L’approccio più esteso che il concetto di sostenibilità ha, rispetto alle questioni di carattere economico novecentesche potrebbe essere un fattore di successo: ambiente, società ed economia devono potersi sviluppare in un insieme armonico, per potere fare uscire dalla miseria la gran parte delle persone che non hanno la fortuna di vivere nel ricco Occidente, e non stagnare o, peggio, regredire, condannandole ad una breve vita di stenti, che sarebbe poi la conclusione della decrescita felice.
Gli infortuni sul lavoro sono stati senz’altro uno degli argomenti dell’anno passato. L’incidente occorso a Luana D’Orazio, giovane operaia madre di un bambino di cinque anni, deceduta in seguito all’Impigliamento in un ingranaggio dell’orditoio che stava utilizzando, ha colpito l’opinione pubblica e da allora, dal 3 maggio 2021, le notizie sugli altri incidenti mortali avvenuti al lavoro sono uscite dalle cronache locali, per diventare un tema del dibattito politico.
Le cause degli incidenti sono state attribuite all’assenza o all’inefficacia della formazione dei lavoratori, alla mancanza dei controlli o a un sistema sanzionatorio percepito come non adeguatamente punitivo, nei confronti dei datori di lavoro responsabili di violazioni delle norme sulla tutela dei lavoratori. Per qualche settimana ci si è cullati con l’idea di istituire una Procura nazionale in materia di sicurezza sul lavoro ma poi, il 21 ottobre 2021, il Governo ha emesso il decreto-legge numero 146, convertito con la legge 215, che dedica il Capo III al «Rafforzamento della disciplina in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro», modificando in alcune parti il Decreto Legislativo 81 del 2008.
Vorrei molto pacificamente sviluppare alcune osservazioni per controbattere la valutazione tutto sommato positiva della Legge 215, conversione del Decreto-legge 146 del 2021, che spesso viene presentata come una revisione fondamentale del Testo Unico, il Decreto Legislativo 81 del 2008. Recentemente, poi, ha iniziato a farsi largo una lettura del fenomeno infortunistico basata su una pubblicazione di Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europea, che valuta positivamente che l’Italia si classifichi quindicesima sulle 27 nazioni dell’Unione, nella triste classifica degli infortuni mortali e che propone una lettura a mio avviso parziale e frammentaria, del fenomeno infortunistico del nostro paese. L’affermazione, neanche troppo velata, è che, tutto sommato, non va così male, che in fondo le cose sono migliorate, in paragone agli anni Ottanta, e che i numeri sono “truccati” perché in Italia si considerano anche gli infortuni in itinere e sui mezzi di trasporto, mentre altrove no.
A parte il fatto che, non credo Eurostat vada a raccogliere i dati mandando i modulini ai governi, ma sono convinto conoscano il loro lavoro, e che i dati siano già normalizzati in partenza, vorrei sapere perché un poverocristo investito nel piazzale o un corriere con un’agenda strizzata di consegne non conta. O il ragazzino che ieri ha perso la vita sul furgone dell’azienda.
Io credo che sia maturo il momento per una seria valutazione di come questo paese intende gestire un aspetto fondamentale della sua vita comunitaria: come una persona si guadagna da vivere per sé e per la propria famiglia e come si cerca di fare in modo che possa tornare a casa una volta che ha terminato il lavoro. La legge 215 è un pezzo di legislazione che sinceramente ci potevamo evitare. Trasformazione di un decreto-legge, che la Costituzione prevede possa essere adottato in casi straordinari di necessità e di urgenza, per dei provvedimenti che, in gran parte, sono semplicemente annunciati, o scritti malamente. Ho già approfondito questi temi: non è così che si legifera. Non abbiamo bisogno di provvedimenti come questi.
È contestabile anche che il Testo unico, nei suoi quattordici anni dalla sua approvazione, abbia prodotto tutti questi risultati. Il SINP, il servizio informativo che doveva raccogliere gli indicatori riguardanti salute e sicurezza, per permettere una più efficace prevenzione, è ancora sulle ginocchia degli dèi – e la legge 215 faticosamente ricostituisce il tavolo tecnico, ormai scaduto, dalla sua prima costituzione, undici anni dopo l’annuncio, nel 2019 – ma è possibile comunque combinare i dati che alcune amministrazioni pubbliche raccolgono e divulgano. Mettendo in correlazione le serie storiche dell’ISTAT, sulle ore lavorate, e dell’INAIL, sugli infortuni mortali denunciati, scopriamo che tra 2009 e 2010 gli indici infortunistici sono bruscamente aumentati, dopo avere raggiunto il punto più basso dall’inizio della serie, e da allora la curva è rimasta pressoché orizzontale, salvo impennarsi l’anno passato, per ovvi motivi contingenti. Intanto, l’Unione europea si vanta che sul suo territorio gli infortuni mortali sul lavoro sono diminuiti del 70% negli ultimi trent’anni . Niente male, veramente niente male.
Ma cosa si può fare? Innanzitutto, sarebbe il caso che il legislatore non ci ne mettesse del suo a rendere le cose più difficili. È necessario un progetto, come dicono giustamente molti, un obiettivo, non iniziative legislative scoordinate, come quelle che vediamo. Da una parte ci si indigna per le cosiddette morti bianche, promettendo di irrigidire le regole, fino ad arrivare a costituire nientemeno che una Procura nazionale che indaghi sugli infortuni sul lavoro, dall’altra si mettono le condizioni perché la mattanza aumenti. Secondo la giornalista Serena Gabanelli uno degli effetti collaterali dei vari bonus che sono stati destinati al settore dell’edilizia è stato l’aumento di infortuni e incidenti mortali, causati dal proliferare di aziende messe in piedi in fretta e furia, per approfittare della disponibilità di denaro, senza competenze, attrezzature, professionalità. Strano, vero? Era così difficile da immaginare prima? E pensare che nell’edilizia si aspetta ancora la patente a punti dal 2009 (art. 27 del D.Lgs. 81/2008).
Il Testo unico ha fallito
Bisogna avere il coraggio di ammettere che l’approccio che è alla base del Testo unico è fallito. Gli ingegneri Gianfranco Amato e Fernando di Fiore – benemeriti – fin dall’agosto del 2009 mantengono aggiornata e condividono una versione ipertestuale della norma, ricca dei riferimenti imprescindibili per la corretta comprensione degli obblighi e delle responsabilità dei vari soggetti interessati. La revisione del febbraio 2022 consta di ben 1151 pagine, scritte nel peggior burocratese, ricche di rimandi e di eccezioni. Non è difficile imbattersi in aziende o in consulenti che hanno il sincero obiettivo di rispettare la legge, ma che non sono in grado di farlo, perché i processi vanno al di là della loro comprensione.
Il meccanismo che è oggi alla base della tutela dei lavoratori può essere semplicemente descritto in questi passaggi:
Individuazione dei pericoli, ovvero identificazione delle condizioni in cui il lavoratore può essere soggetto ad incidenti od infortuni.
Rispetto della conformità tecnica. Una volta definiti gli scenari lavorativi, il rispetto degli accorgimenti regolamentati, dalla scelta delle attrezzature di lavoro alla formazione e all’addestramento.
Valutazione del rischio residuo e miglioramento continuo, che è l’innovazione che la direttiva 89/391/CEE si proponeva.
È possibile dire, con sincerità, che il Testo unico li spiega con chiarezza? Che i processi che impone riescono a raggiungere questi obiettivi con economia ed efficacia? No, non lo è.
Quanti incidenti e infortuni mortali sono riconducibili a violazioni dei requisiti minimi dettati dalla tecnica, e quanti a rischi residui non tenuti in debita considerazione? La sensazione è che l’imponente carico amministrativo provocato dal Testo unico – volente o nolente – abbia fatto passare in secondo piano la considerazione dei banali regole di protezione. Almeno questa è l’impressione di qualcuno che frequenta cantieri e officine da oltre quarant’anni. Le vecchie norme tecniche, la sacra trimurti dei DPR 547, 164 e 320 avevano un vantaggio: indicavano qual era il problema e fornivano una soluzione per affrontarlo. Oggi sembra essere diventato più importante avere un documento di valutazione dei rischi che elenchi tutte le conseguenze possibili e immaginabili, che essersi organizzati per gestirle.
La stragrande maggioranza del tessuto imprenditoriale nazionale è formato da piccole o piccolissime imprese, che non possono permettersi consulenti costosi o adempimenti bizzarri: è necessario dare a queste la possibilità di raggiungere e mantenere la conformità tecnica dei processi lavorativi con poco sforzo. Per arrivarci, i requisiti di base devono essere chiaramente accessibili ed occorre creare una cultura tecnica che reputi importante il loro soddisfacimento. È impossibile arrivare a questo risultato con leggi o provvedimenti normativi, ma occorre divulgare e rendere disponibili buone prassi. In passato l’ISPESL si era assunta questo obiettivo, oggi è un servizio che le associazioni datoriali dovrebbero dare ai loro iscritti. Perché devo cercare un consulente per “mettermi in regola”, se voglio aprire una qualsiasi attività produttiva? Perché la mia associazione di categoria non mi può supportare, fornendomi indicazioni tecniche, proponendomi quei professionisti che possono fare al caso mio? E magari definendo un livello minimo di competenze e di organizzazione che la nuova azienda deve soddisfare, per potersi iscrivere ed avere accesso ai servizi tecnici che le sono necessari?
Milena Gabanelli ha fatto giustamente notare che chiunque può aprire un’azienda di costruzioni e iniziare a lavorare, senza avere particolari competenze. Se per compiere questa operazione fosse necessario essere iscritti ad un’associazione di categoria, e queste definissero regole per la qualificazione, e il suo mantenimento, degli imprenditori e delle aziende, magari le cose cambierebbero? Stiamo assistendo al paradosso che, tra aggiornamento continuo per l’iscrizione agli ordini professionali, per mantenere i requisiti legali a ricoprire determinati ruoli, per l’iscrizione alle associazioni professionali e per la certificazione delle professioni non regolamentate, i consulenti diventano sempre più competenti e i datori di lavoro sempre di meno.
Il Testo unico ha perso di vista l’obiettivo: non serve a nulla che il preposto venga individuato (qualsiasi cosa significhi), che vada in aula ogni due anni (rigorosamente in presenza), che le verifiche finali della formazione rispettino i requisiti che saranno definiti dalla Conferenza Stato-regioni (entro il 30 giugno 2022), che il suo addestramento venga registrato (anche su supporto informatico) e che sia stata verificata l’efficacia della sua formazione durante lo svolgimento della prestazione lavorativa (come lo vedremo), se poi le protezioni della macchina fustellatrice, o del filatoio, o di qualsiasi altra macchina, vengono rimosse, e tutto questo è considerato accettabile fino a che qualcuno ne fa le spese. Bisogna tornare a valutare l’aspetto tecnico del lavoro, perché lavorare su quello organizzativo ce lo ha fatto trascurare.
Sì, ma dice, l’Europa ci chiede di adottare la tecnica della valutazione dei rischi. La direttiva 89/391/CEE era rivoluzionaria quando uscì e oggi lo rimane. Disgraziatamente è stata fraintesa fin dall’inizio, per un importante divario culturale della nostra cultura professionale, e oggi si stenta a riconoscerla nel Titolo I del Testo unico. Altre nazioni hanno applicato i principi della valutazione dei rischi in maniera più diretta, semplice ed allineata alla teoria che la supporta, senza trasformarla in quell’esercizio bizantino che ne abbiamo fatto in Italia. Già è piuttosto comune imbattersi in DVR che non affrontano i cosiddetti “rischi specifici” secondo i criteri definiti dai vari titoli, ma è anche facile trovare valutazioni in cui ci si riferisce a scale di probabilità e danno, senza che poi vengano utilizzate nell’esame vero e proprio, così come si può scoprire che non è calcolato il rischio residuo, quello che resta dopo che vengono applicati i controlli, per valutare se sia accettabile o meno. E, comunque, in molte aziende chi provasse a fare un giro nei reparti utilizzando il DVR come guida, potrebbe avere delle sorprese nel trovare l’enorme distanza che c’è tra il processo descritto e quello realmente eseguito. Questo adempimento ha preso una deriva che lo ha portato a diventare da strumento tecnico, motivato da una spinta etica, a responsabilità burocratica da dimostrare alle varie parti interessate, organi regolatori e superiori. Un appesantimento giustamente incomprensibile a coloro che producono il reddito dell’azienda, che ha contribuito a diminuire la considerazione che la gestione nella sicurezza ha tra di loro. E il fatto che si valuti necessario ricordare ai capi intermedi (capi squadra, capi cantiere) le loro responsabilità di preposti è la dimostrazione di tutto questo: percepita ma non compresa dal nostro legislatore.
La norma di legge deve definire gli indirizzi del sistema di prevenzione, individuare chiaramente gli obiettivi della sua azione e gli strumenti per raggiungerli. Stop. L’attuale testo unico è diventato l’argomento delle disquisizioni di mandarini che non hanno mai visto una officina o un cantiere. Le norme tecniche devono essere rinnovate e divulgate tra i datori di lavoro dagli enti tecnici e dalle associazioni datoriali, che devono realmente promuovere il progresso tecnico e professionale dei loro iscritti. La valutazione del rischio deve tornare al suo ambito originale, strumento di programmazione e di controllo, e deve essere chiaro che deve essere applicata al rischio residuo, una volta che si sono soddisfatti i requisiti normativi, possibilmente attraverso la promozione dell’adozione di sistemi di gestione per la sicurezza. ISO 45001 è uno standard che ha il potenziale di incidere in maniera rilevante sulla cultura della sicurezza delle organizzazioni.
Gli infortuni sul lavoro sono stati senz’altro uno degli argomenti dell’anno. L’incidente occorso a Luana D’Orazio, giovane operaia madre di un bambino di cinque anni, deceduta in seguito all’Impigliamento in un ingranaggio dell’orditoio che stava utilizzando, ha colpito l’opinione pubblica e da allora, dal 3 maggio 2021, le notizie sugli altri incidenti mortali avvenuti al lavoro sono uscite dalle cronache locali, per diventare un tema del dibattito politico. Le cause degli incidenti sono state attribuite all’assenza o all’inefficacia della formazione dei lavoratori, alla mancanza dei controlli o a un sistema sanzionatorio percepito come non adeguatamente punitivo, nei confronti dei datori di lavoro responsabili di violazioni delle norme sulla tutela dei lavoratori. Per qualche settimana ci si è cullati con l’idea di istituire una Procura nazionale in materia di sicurezza sul lavoro ma poi, il 21 ottobre 2021, il Governo ha emesso il decreto-legge numero 146, convertito con la legge 215, che dedica il Capo III al «Rafforzamento della disciplina in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro», modificando in alcune parti il Decreto Legislativo 81 del 2008.
Ho pubblicato su LinkedIn un post per illustrare questo grafico, che ho preparato per un articolo, ma che mi sembrava interessante condividere in anticipo. La curva descrive il rapporto tra numeri di infortuni mortali denunciati, tratto dalle serie storiche INAIL, e le ore lavorate, ricavato da quelle ISTAT. Si può vedere come gli infortuni mortali, in proporzione con le ore lavorate, in quarant’anni sono diminuiti di circa il 20%. Il grosso però è avvenuto PRIMA dell’adozione delle direttive europee, che sono applicate in Italia dal 1994, anno del Decreto Legislativo 626. Paradossalmente, l’entrata in vigore del Testo Unico coincide con un picco degli infortuni mortali, nel 2009, che da allora (oltre dieci anni fa) sono diminuiti, ma con una decrescita molto lenta, in assoluto e paragonabile a quella che si era raggiunta prima del Testo Unico.
A mio avviso, questo è un segnale molto chiaro di come le politiche sulla sicurezza sul lavoro degli ultimi anni siano inefficaci. Dal 2008 abbiamo avuto il Testo Unico, la Responsabilità Amministrativa degli Enti, finalmente sono stati definiti percorsi di formazione e di addestramento con una logica… eppure tutto questo sembra non avere avuto un grande influsso sui nostri punteggi.
Ho scritto queste righe all’indomani del provvedimento che promette la solita svolta radicale, ma intanto mette su un binario morto il SINP, che è quell’istituto che dovrebbe raccogliere i dati in maniera sistematica, in modo da pianificare e tenere sotto controllo le politiche di prevenzione. In Italia non abbiamo dati, ovvero ciò che si può estrapolare dai database pubblici è poco più di questo che ti mostro. Nell’attesa di informazioni più dettagliate, qual è la risposta alla domanda: un indicatore di questo tipo mi aiuta a prevenire gli infortuni?
Sì, senz’altro.
Cosa ci dice questo grafico? Ci dice sicuramente che il sistema legislativo di prevenzione che è stato imposto dall’Unione non ha avuto la medesima influenza che ha mostrato altrove nel ridurre gli incidenti. Infatti, il documento UE Quadro strategico dell’UE in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro 2021-2027 afferma che, tra il 1994 e il 2018 gli infortuni mortali sul lavoro nel territorio dell’unione sono diminuiti di circa il 70%, fornendo inoltre dati tangibili sul loro costo economico e sociale, che in Italia è pari a oltre il 6% del PIL, circa TRE VOLTE il contributo dell’agricoltura al nostro prodotto interno lordo!
Ha quindi senso continuare con un sistema che si è mostrato inefficace? Aumentare le sanzioni, rendere gli obblighi più stringenti? Trasformare una materia prettamente tecnica nella piastra di petri di azzeccagarbugli e spaccatori professionisti di capelli in quattro?
Da qualche tempo mostro anche questo grafico: l’andamento trentennale degli infortuni in Gran Bretagna, correlato ad altri dati ed eventi. L’UK trent’anni fa era come noi, oggi ha un terzo dei nostri infortuni e malattie professionali. Come ha fatto? Creando un meccanismo che ha coinvolto le parti sociali, sindacati, industriali, professionisti, che hanno promosso e sostenuto iniziative di miglioramento periodiche (le linee verticali).
Volete un esempio? Conoscete la storia delle CSCS cards? Si tratta di un sistema di qualificazione volontario delle competenze dei lavoratori dell’edilizia, diffuso nel Regno Unito. Nato nel 1995 su iniziativa privata, negli anni 2000 le principali imprese di costruzioni britanniche decisero di adottarlo unilateralmente, per combattere l’aumento degli incidenti nel loro settore, ed oggi è gestito dal CITB, il Construction Industry Training Board, è supportato dal Construction Leadership Council ed è uno standard de-facto: non si entra in cantiere senza CSCS card.
In Italia, invece, si invoca l’intervento demiurgico del governo, salvo poi farlo a pezzi perché inadeguato, velleitario, limitativo. Dal grafico in apertura si può desumere che il legislatore abbia dato ampiamente prova della sua incapacità, per cui sarebbe opportuno che facesse un passo indietro. Come in Gran Bretagna, dovrebbe astenersi dal definire un processo regolatorio nei minimi particolari, per una disciplina tecnica, “limitandosi” a creare i presupposti per il coinvolgimento dei quattro grandi gruppi che vi operano: gli imprenditori, la grande proprietà e gli investitori, i sindacati, i professionisti. Naturalmente, questi dovrebbero modificare il loro atteggiamento e comprendere che il miglioramento del settore non può andare a discapito anche solo degli inteessi di parte interessata.
Ciascuno deve potere rinunciare a qualcosa per ottenere un miglioramento maggiore e più duraturo. Ma è difficile, lo so. Molto meglio proseguire con le grida manzoniane.
Fino a qualche tempo fa era normale che le aziende che non avevano particolari questioni legate all’ambiente – non i grandi stabilimenti petrolchimici per intenderci, ad esempio – affidassero la gestione degli adempimenti ambientali al Responsabile del servizio prevenzione e protezione. Un scelta che poteva essere il riconoscimento di una certa marginalità di questi aspetti dell’organizzazione: sia la protezione dell’integrità psicofisica del lavoratore che quella dell’ambiente percepite come lontane dalla produzione. Mentre però l’Italia ha provveduto a regolamentare il ruolo di RSPP sin dal 1994, con il Decreto Legislativo 626, che recepisce per la prima volta la direttiva 89/391/CEE, sull’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, e a definire i requisiti della sua qualificazione, con regolamenti sui quali si è intervenuto più volte a partire dal Decreto Legislativo 195 del 2003, che bene o male hanno fornito un certo grado di alfabetizzazione a chi ricopre questo ruolo, nulla è stato fatto per quanto riguarda la formazione ambientale. Questo significa che un Responsabile del servizio prevenzione e protezione, se restiamo al dato nudo degli argomenti che si affrontano per ottenere questa qualifica, non ha alcuna competenza in materia di gestione ambientale, con il corollario che non esiste, in Italia, una summa di conoscenze e abilità che sia condivisa e riconosciuta a livello professionale. Si trovano, però, un insieme di storie e di esperienze personali. Naturalmente ci sono punte di eccellenza e fior di professionisti, ma quello che manca è un syllabus di nozioni culturali e pratiche base e condivise, almeno per quei professionisti maturi che non hanno avuto modo di affrontare questi temi durante il loro periodo di studi.
Ha cercato di porre rimedio a questa situazione la norma italiana UNI 11720, Attività professionali non regolamentate – Manager HSE (Health, Safety, Environment) – Requisiti di conoscenza, abilità e competenza, rilasciata nel luglio del 2018, definendo un livello minimo di requisiti per questo ruolo. L’obiettivo di questo approfondimento non è quello di fornire un supporto all’acquisizione di tutte le nozioni richieste dalla norma, soprattutto perché andando a leggere il contenuto del modulo formativo numero 5 Area tecnica in materia ambientale, si scopre che i requisiti richiesti per puntare alla certificazione come HSE Manager sono piuttosto impegnativi, e si può restare sorpresi sia da quello che è stato incluso che da ciò che è stato omesso. Molto più modestamente, questo lavoro intende fornire ai tecnici gli elementi base relativi agli obblighi e alle soluzioni da impiegare, all’interno di un inquadramento generale più ampio, relativo ai temi e ai movimenti culturali che stanno fungendo come stimolo per il settore. Tutto ciò da utilizzare come punto di partenza per l’approfondimento dei temi più vicini alla politica e all’operatività delle attività che seguono.