Perché il nostro sistema nazionale della prevenzione è inefficace

Ho pubblicato su LinkedIn un post per illustrare questo grafico, che ho preparato per un articolo, ma che mi sembrava interessante condividere in anticipo. La curva descrive il rapporto tra numeri di infortuni mortali denunciati, tratto dalle serie storiche INAIL, e le ore lavorate, ricavato da quelle ISTAT. Si può vedere come gli infortuni mortali, in proporzione con le ore lavorate, in quarant’anni sono diminuiti di circa il 20%. Il grosso però è avvenuto PRIMA dell’adozione delle direttive europee, che sono applicate in Italia dal 1994, anno del Decreto Legislativo 626. Paradossalmente, l’entrata in vigore del Testo Unico coincide con un picco degli infortuni mortali, nel 2009, che da allora (oltre dieci anni fa) sono diminuiti, ma con una decrescita molto lenta, in assoluto e paragonabile a quella che si era raggiunta prima del Testo Unico.

A mio avviso, questo è un segnale molto chiaro di come le politiche sulla sicurezza sul lavoro degli ultimi anni siano inefficaci. Dal 2008 abbiamo avuto il Testo Unico, la Responsabilità Amministrativa degli Enti, finalmente sono stati definiti percorsi di formazione e di addestramento con una logica… eppure tutto questo sembra non avere avuto un grande influsso sui nostri punteggi.

Ho scritto queste righe all’indomani del provvedimento che promette la solita svolta radicale, ma intanto mette su un binario morto il SINP, che è quell’istituto che dovrebbe raccogliere i dati in maniera sistematica, in modo da pianificare e tenere sotto controllo le politiche di prevenzione. In Italia non abbiamo dati, ovvero ciò che si può estrapolare dai database pubblici è poco più di questo che ti mostro. Nell’attesa di informazioni più dettagliate, qual è la risposta alla domanda: un indicatore di questo tipo mi aiuta a prevenire gli infortuni?

Sì, senz’altro.

Cosa ci dice questo grafico? Ci dice sicuramente che il sistema legislativo di prevenzione che è stato imposto dall’Unione non ha avuto la medesima influenza che ha mostrato altrove nel ridurre gli incidenti. Infatti, il documento UE Quadro strategico dell’UE in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro 2021-2027 afferma che, tra il 1994 e il 2018 gli infortuni mortali sul lavoro nel territorio dell’unione sono diminuiti di circa il 70%, fornendo inoltre dati tangibili sul loro costo economico e sociale, che in Italia è pari a oltre il 6% del PIL, circa TRE VOLTE il contributo dell’agricoltura al nostro prodotto interno lordo!

Ha quindi senso continuare con un sistema che si è mostrato inefficace? Aumentare le sanzioni, rendere gli obblighi più stringenti? Trasformare una materia prettamente tecnica nella piastra di petri di azzeccagarbugli e spaccatori professionisti di capelli in quattro?

Da The efficacy of industrial safety science constructs for addressing serious
injuries & fatalities
, di M. Dominic Cooper.

Da qualche tempo mostro anche questo grafico: l’andamento trentennale degli infortuni in Gran Bretagna, correlato ad altri dati ed eventi. L’UK trent’anni fa era come noi, oggi ha un terzo dei nostri infortuni e malattie professionali. Come ha fatto? Creando un meccanismo che ha coinvolto le parti sociali, sindacati, industriali, professionisti, che hanno promosso e sostenuto iniziative di miglioramento periodiche (le linee verticali).

Volete un esempio? Conoscete la storia delle CSCS cards? Si tratta di un sistema di qualificazione volontario delle competenze dei lavoratori dell’edilizia, diffuso nel Regno Unito. Nato nel 1995 su iniziativa privata, negli anni 2000 le principali imprese di costruzioni britanniche decisero di adottarlo unilateralmente, per combattere l’aumento degli incidenti nel loro settore, ed oggi è gestito dal CITB, il Construction Industry Training Board, è supportato dal Construction Leadership Council ed è uno standard de-facto: non si entra in cantiere senza CSCS card.

In Italia, invece, si invoca l’intervento demiurgico del governo, salvo poi farlo a pezzi perché inadeguato, velleitario, limitativo. Dal grafico in apertura si può desumere che il legislatore abbia dato ampiamente prova della sua incapacità, per cui sarebbe opportuno che facesse un passo indietro. Come in Gran Bretagna, dovrebbe astenersi dal definire un processo regolatorio nei minimi particolari, per una disciplina tecnica, “limitandosi” a creare i presupposti per il coinvolgimento dei quattro grandi gruppi che vi operano: gli imprenditori, la grande proprietà e gli investitori, i sindacati, i professionisti. Naturalmente, questi dovrebbero modificare il loro atteggiamento e comprendere che il miglioramento del settore non può andare a discapito anche solo degli inteessi di parte interessata.

Ciascuno deve potere rinunciare a qualcosa per ottenere un miglioramento maggiore e più duraturo. Ma è difficile, lo so. Molto meglio proseguire con le grida manzoniane.

Nozioni ambientali di base per HSE Manager | Speciale ISL

Fino a qualche tempo fa era normale che le aziende che non avevano particolari questioni legate all’ambiente – non i grandi stabilimenti petrolchimici per intenderci, ad esempio – affidassero la gestione degli adempimenti ambientali al Responsabile del servizio prevenzione e protezione. Un scelta che poteva essere il riconoscimento di una certa marginalità di questi aspetti dell’organizzazione: sia la protezione dell’integrità psicofisica del lavoratore che quella dell’ambiente percepite come lontane dalla produzione. Mentre però l’Italia ha provveduto a regolamentare il ruolo di RSPP sin dal 1994, con il Decreto Legislativo 626, che recepisce per la prima volta la direttiva 89/391/CEE, sull’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, e a definire i requisiti della sua qualificazione, con regolamenti sui quali si è intervenuto più volte a partire dal Decreto Legislativo 195 del 2003, che bene o male hanno fornito un certo grado di alfabetizzazione a chi ricopre questo ruolo, nulla è stato fatto per quanto riguarda la formazione ambientale. Questo significa che un Responsabile del servizio prevenzione e protezione, se restiamo al dato nudo degli argomenti che si affrontano per ottenere questa qualifica, non ha alcuna competenza in materia di gestione ambientale, con il corollario che non esiste, in Italia, una summa di conoscenze e abilità che sia condivisa e riconosciuta a livello professionale. Si trovano, però, un insieme di storie e di esperienze personali. Naturalmente ci sono punte di eccellenza e fior di professionisti, ma quello che manca è un syllabus di nozioni culturali e pratiche base e condivise, almeno per quei professionisti maturi che non hanno avuto modo di affrontare questi temi durante il loro periodo di studi.

Ha cercato di porre rimedio a questa situazione la norma italiana UNI 11720, Attività professionali non regolamentate – Manager HSE (Health, Safety, Environment) – Requisiti di conoscenza, abilità e competenza, rilasciata nel luglio del 2018, definendo un livello minimo di requisiti per questo ruolo. L’obiettivo di questo approfondimento non è quello di fornire un supporto all’acquisizione di tutte le nozioni richieste dalla norma, soprattutto perché andando a leggere il contenuto del modulo formativo numero 5 Area tecnica in materia ambientale, si scopre che i requisiti richiesti per puntare alla certificazione come HSE Manager sono piuttosto impegnativi, e si può restare sorpresi sia da quello che è stato incluso che da ciò che è stato omesso. Molto più modestamente, questo lavoro intende fornire ai tecnici gli elementi base relativi agli obblighi e alle soluzioni da impiegare, all’interno di un inquadramento generale più ampio, relativo ai temi e ai movimenti culturali che stanno fungendo come stimolo per il settore. Tutto ciò da utilizzare come punto di partenza per l’approfondimento dei temi più vicini alla politica e all’operatività delle attività che seguono.

Con contributi di Margherita Santamicone e Davide Canuti.

Questo lavoro è stato pubblicato col supplemento al numero 10/2021 di Igiene & Sicurezza del Lavoro.

UN Climate change conference UK 2021 | HSE Manager Wolters Kluwer

Il principale obiettivo della COP26 è di spingere i paesi a presentare piani per azzerare le emissioni nette a livello globale entro il 2050, incoraggiare i paesi colpiti dei cambiamenti climatici a proteggere e recuperare gli ecosistemi e a costruire sistemi per la segnalazione la protezione dagli eventi climatici estremi.


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Il rapporto 2021 IPCC sui cambiamenti climatici | HSE Manager Wolters Kluwer

Nel 2021 l’IPCC ha pubblicato il suo sesto rapporto di valutazione – il primo è uscito nel 1990 – uno strumento utilizzato dai governi delle organizzazioni sovranazionali per indirizzare la politica ambientale degli stati. Il rapporto scientifico vero e proprio è affiancato da una serie di strumenti per fare in modo che il messaggio possa arrivare a tutti, e non solo a coloro che sono in possesso di una particolare formazione: il pianeta è in pericolo e noi con lui.

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Il nuovo documento ISO/TS 22393:2021 Security and resilience — Community resilience — Guidelines for planning recovery and renewal | HSE Manager Wolters Kluwer

Il suo obiettivo è fornire supporto alle organizzazioni di diverso tipo – comunità a diverso livello, settore pubblico e privato, aziende profit e volontariato – per guidare i post crisi non necessariamente causati solo dalla pandemia, attraverso l’articolazione di tre fasi: riflettere e apprendere da quanto è accaduto, rivedere l’organizzazione dei processi e ripristinare le operazioni.

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Gli infortuni e le malattie professionali nel Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025 | Teknoring

Image by Adriano Gadini from Pixabay

Il Ministero della salute ha pubblicato il Piano nazionale della prevenzione 2021-2025, il documento che intende definire i programmi per le attività che l’Amministrazione svilupperà in questo periodo. In Italia il Servizio Sanitario è nazionale. L’articolazione amministrativa del nostro paese, però, è tale per cui esiste un’amministrazione centrale, il Ministero della salute, che stabilisce i programmi che saranno però sviluppati dalle amministrazioni regionali. Il documento, quindi, non è immediatamente operativo, ma rimanda necessariamente alla produzione di ventuno piani territoriali – da diciannove regioni e due province autonome – in cui dovrebbero essere articolate le azioni specifiche. Questa condizione continua ad essere la causa di disparità tra i servizi di cui i cittadini possono godere a seconda del loro luogo di residenza, e per questo motivo questo PNP afferma di avere definito, tra l’altro, criteri più rigidi che in passato, per l’individuazione e la rendicontazione degli indicatori.

Tutt’altro modo di fare si può leggere nell’analogo documento preparato dall’Unione Europea: il “Quadro strategico dell’UE in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro 2021-2027 – Sicurezza e salute sul lavoro in un mondo del lavoro in evoluzione”. Intanto già il titolo è significativo: un piano non è tale se non ne ha i requisiti: “quadro strategico” calzerebbe meglio anche al documento italiano. Si tratta, infatti, per entrambi di documenti che forniscono i principi guida per le azioni operative che dovranno – loro sì – essere pianificate di conseguenza.

Puoi leggere l’intero articolo su Teknoring.

Una procura nazionale contro gli incidenti sul lavoro? | Teknoring

La creazione di una procura nazionale contro gli incidenti sul lavoro sembra essere la ricetta che il sistema Italia ha intenzione di dare alla crisi degli incidenti sul lavoro. Una crisi che non consiste – è bene ricordare – in un eccezionale aumento del loro numero, perché sono ormai più di vent’anni che nel nostro paese, ogni giorno dell’anno accadono mediamente dai tre ai quattro infortuni mortali. Qualche giorno tre, qualche giorno quattro.

A cosa serve una Procura generale?

Sul sito web del Ministero della Giustizia si può leggere che, in Italia, ce n’è solo un’altra. Ovvero, esiste una Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo – DDA – composta dal Procuratore Nazionale Antimafia e da 20 magistrati del Pubblico Ministero, che sono i sostituti procuratori nazionali antimafia. I procuratori sono coloro che rappresentano in giudizio gli interessi della collettività e dello stato e, assieme ai sostituti, promuovono le azioni penali. Sempre su questa pagina si può leggere che il Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo coordina le indagini condotte dalle singole Direzioni Distrettuali Antimafia, in modo da assicurare la reciproca informazione tra gli uffici interessati, quando ci sono fatti o circostanze che possono essere rilevanti per loro. Mafia e terrorismo, infatti, normalmente svolgono le loro attività criminali noncuranti dell’articolazione territoriale delle procure, distribuite in Italia in 140 uffici, e la DDA si occupa di coordinare le attività di indagine.

La repressione è quello che serve?

Accettare questa tesi significa sostenere che coloro che trascurano le proprie responsabilità relative alla prevenzione degli infortuni e alla protezione dei lavoratori, lo fanno perché pensano che sia improbabile che saranno imputati, o eventualmente condannati, o che la pena che subiranno sarà trascurabile.

Leggi l’articolo completo su Teknoring.it

La lezione di Deming e il Quadro strategico UE in materia di salute e sicurezza sul lavoro 2021-2027 | HSE Manager Wolters Kluwer

Deming ci ha insegnato che, per ottenere e mantenere i risultati, occorre porsi costantemente obiettivi da superare, per poterne raggiungere altri, più sfidanti.

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Il contributo degli enti di vigilanza

Qualche settimana fa, su LinkedIn, ho assistito ad uno scambio interessante tra due tecnici che si conoscono e si rispettano, per quanto so da più di vent’anni. Il tema era il supporto che gli enti di vigilanza forniscono alle imprese per migliorare le loro prestazioni di salute e sicurezza. In breve, chi lavora per le aziende sostiene la sua irrilevanza, chi lavora all’ASL rivendica invece il suo contributo.

Io non sono particolarmente entusiasta delle occasioni di aggiornamento organizzate dai servizi territoriali: dopo un po’ di conferenze di Pubblici Ministeri, che mi hanno spiegato la procedura (penale) ma non mi sono servite a migliorare le mie competenze strettamente tecniche, ho spesso di frequentarle.

Volevo però segnalarvi questa mailing list alla quale sono iscritto. HSE.GOV è l’organizzazione inglese che sovrintende alla preparazione della normativa tecnica, svolge ispezioni e fornisce supporto ai prosecutor per il perseguimento dei reati. Per il mese di ottobre propone un corso di formazione per spiegare come avvengono le ispezioni e un seminario sulla cultura della sicurezza.
A questo link potete scaricare, invece, il Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025 preparato dal Ministero della Salute in Italia.

Il diritto alla disconnessione, l’Italia e il Cile | HSE Manager Wolters Kluwer

Il 21 gennaio del 2021 il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione con la quale ha chiesto ai governi dei paesi membri di impegnarsi a normare il diritto alla disconnessione, un aspetto dovuto agli strumenti tecnologici di comunicazione che ha mostrato la sua criticità con la crescita dello smart working, a causa della pandemia.

In Italia, questo diritto è stato introdotto per la prima volta con la legge numero 81 del 2017, che richiede che il tempo libero venga definito dal contratto di lavoro, senza però fornire indicazioni di carattere generale su come farlo. A dire il vero, il diritto alla disconnessione non viene nemmeno mai nominato, e questo lascia spazio agli abusi che tanti stanno lamentando. Sul portale delle news delle Nazioni Unite si può leggere la notizia che il Cile ha adottato, già nel marzo dell’anno passato, una norma che in qualche modo prende in considerazione questo problema. La legge riconosce che il lavoratore ha il diritto di disconnettersi almeno 12 ore nelle 24 e che il datore di lavoro non può chiedergli di rispondere alle comunicazioni nei giorni festivi o di riposo.

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