Gli infortuni sul lavoro sono stati senz’altro uno degli argomenti dell’anno. L’incidente occorso a Luana D’Orazio, giovane operaia madre di un bambino di cinque anni, deceduta in seguito all’Impigliamento in un ingranaggio dell’orditoio che stava utilizzando, ha colpito l’opinione pubblica e da allora, dal 3 maggio 2021, le notizie sugli altri incidenti mortali avvenuti al lavoro sono uscite dalle cronache locali, per diventare un tema del dibattito politico. Le cause degli incidenti sono state attribuite all’assenza o all’inefficacia della formazione dei lavoratori, alla mancanza dei controlli o a un sistema sanzionatorio percepito come non adeguatamente punitivo, nei confronti dei datori di lavoro responsabili di violazioni delle norme sulla tutela dei lavoratori. Per qualche settimana ci si è cullati con l’idea di istituire una Procura nazionale in materia di sicurezza sul lavoro ma poi, il 21 ottobre 2021, il Governo ha emesso il decreto-legge numero 146, convertito con la legge 215, che dedica il Capo III al «Rafforzamento della disciplina in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro», modificando in alcune parti il Decreto Legislativo 81 del 2008.
Definire e implementare l’azione correttiva non significa attuare correttamente il cambiamento o raggiungere il risultato fissato negli obiettivi. Nella determinazione dell’azione correttiva occorre precisare chiaramente cosa si vuole raggiungere, basandosi su dati oggettivi e misurabili. Questi poi saranno il riferimento delle verifiche da eseguire in seguito all’ implementazione, per accertarsi di avere soddisfatto le ragioni per cui sono stati modificati i processi.
È consigliabile ripetere dopo qualche tempo il riesame dei risultati raggiunti. Capita infatti che le organizzazioni implementino i processi, ma che ricadano nelle vecchie abitudini dopo poco. È opportuno anche riesaminare periodicamente i risultati delle azioni correttive applicate in risposta a non conformità rilevanti.
Lo strumento utile a determinare questa necessità è la valutazione dei rischi.
Il quinto passo di una indagine su una non conformità è elaborare un piano per l’azione correttiva.
Una vera azione correttiva, che incide sulle cause radice, non può essere applicata in modo improvvisato. Richiede risorse, impegno, tempo. Per ottenere il migliore risultato, però, occorre soprattutto organizzarne lo svolgimento con un piano.
Un piano per l’azione correttiva di una non conformità parte dall’individuazione di un obiettivo, cioè del cambiamento che vogliamo implementare. Prosegue poi con la definizione delle risorse che possiamo dedicargli e con l’attribuzione delle responsabilità ai ruoli rilevanti per il loro utilizzo. Sulla base di queste scelte, definiremo la scadenza temporale entro la quale ottenere i risultati. Infine, è consigliabile stabilire quali indicatori raccogliere durante lo svolgimento delle attività del piano, per tenere sotto controllo gli step di avvicinamento all’obiettivo.
I piani sono gli strumenti che ci permettono di mantenere il controllo delle attività che dobbiamo svolgere, assicurandoci di poterle portare a termine senza problemi. Senza pianificazione si corre il rischio concreto di sprecare energie, ottenendo risultati inferiori alle aspettative.
Dopo aver visto come si analizzano gli esiti dell’indagine vera e propria nell’episodio precedente e, in quest’ultimo, come si organizza un piano per correggere una non conformità, nel prossimo episodio scopriremo perché è necessario riesaminare i risultati dell’azione correttiva.
Una volta che è stata definita la dinamica che ha portato a prodursi una non conformità, un incidente o un infortunio, occorre analizzare i risultati allo scopo di definire una lezione da applicare per fare in modo che il danno non si ripeta. Questo lo si ottiene partendo dall’esame delle cause radice. Intervenire solo sulle cause apparenti o su quelle sottostanti servirà a definire un rimedio contingente per quella deviazione, ma non impedirà che le medesime lacune organizzative o gestionali possano ripetersi, provocando danni in un altro settore. Se abbiamo stabilito che, alla base di quello che è accaduto, ci sono decisioni o disposizioni che non sono state valutate adeguatamente, allora dovremo agire su queste. Così come se supervisione, monitoraggio, formazione o le risorse destinate alla sicurezza si sono rivelate inadeguate, dovremo individuare misure correttive a questo livello.
Cosa succede quando ci imbattiamo in un errore umano? Un atto pericoloso può essere un elemento che ha contribuito ad una non conformità ed è una situazione che deve essere trattata con delicatezza. Da una parte, focalizzarci sull’errore umano può portare a sottovalutare i problemi organizzativi, la cui risoluzione è più efficace per i nostri scopi. Dall’altra, ignorare queste deviazioni può indebolire l’utilità della nostra analisi. La tassonomia dell’errore umano di James T. Reason definisce un utile sistema per inquadrare questi eventi all’interno dei processi produttivi, in modo da poterli riconoscere e costruire le condizioni per evitarli o per tenere sotto controllo le loro conseguenze.
Nella puntata precedente abbiamo visto come si raccolgono le informazioni. Nelle prossime puntate scopriremo come rivedere i processi e pianificare il loro cambiamento.
Lo scopo delle indagini per le non conformità, e quindi anche per gli incidenti e gli infortuni, non è quello di individuare un responsabile. Ma di stabilire i fattori che hanno provocato l’evento, allo scopo di correggere i processi e fare in modo che le violazioni non si possano ripetere. Per fare questo dobbiamo determinare i tre livelli di cause: quelle immediate, l’agente che ha provocato l’evento non voluto. Le cause sottostanti, gli atti o le condizioni pericolose che lo hanno reso possibile. Le cause radice, le scelte organizzative e gestionali che sono all’inizio della catena causale che ha portato alla non-conformità.
Fino a qualche tempo fa era normale che le aziende che non avevano particolari questioni legate all’ambiente – non i grandi stabilimenti petrolchimici per intenderci, ad esempio – affidassero la gestione degli adempimenti ambientali al Responsabile del servizio prevenzione e protezione. Un scelta che poteva essere il riconoscimento di una certa marginalità di questi aspetti dell’organizzazione: sia la protezione dell’integrità psicofisica del lavoratore che quella dell’ambiente percepite come lontane dalla produzione. Mentre però l’Italia ha provveduto a regolamentare il ruolo di RSPP sin dal 1994, con il Decreto Legislativo 626, che recepisce per la prima volta la direttiva 89/391/CEE, sull’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, e a definire i requisiti della sua qualificazione, con regolamenti sui quali si è intervenuto più volte a partire dal Decreto Legislativo 195 del 2003, che bene o male hanno fornito un certo grado di alfabetizzazione a chi ricopre questo ruolo, nulla è stato fatto per quanto riguarda la formazione ambientale. Questo significa che un Responsabile del servizio prevenzione e protezione, se restiamo al dato nudo degli argomenti che si affrontano per ottenere questa qualifica, non ha alcuna competenza in materia di gestione ambientale, con il corollario che non esiste, in Italia, una summa di conoscenze e abilità che sia condivisa e riconosciuta a livello professionale. Si trovano, però, un insieme di storie e di esperienze personali. Naturalmente ci sono punte di eccellenza e fior di professionisti, ma quello che manca è un syllabus di nozioni culturali e pratiche base e condivise, almeno per quei professionisti maturi che non hanno avuto modo di affrontare questi temi durante il loro periodo di studi.
Ha cercato di porre rimedio a questa situazione la norma italiana UNI 11720, Attività professionali non regolamentate – Manager HSE (Health, Safety, Environment) – Requisiti di conoscenza, abilità e competenza, rilasciata nel luglio del 2018, definendo un livello minimo di requisiti per questo ruolo. L’obiettivo di questo approfondimento non è quello di fornire un supporto all’acquisizione di tutte le nozioni richieste dalla norma, soprattutto perché andando a leggere il contenuto del modulo formativo numero 5 Area tecnica in materia ambientale, si scopre che i requisiti richiesti per puntare alla certificazione come HSE Manager sono piuttosto impegnativi, e si può restare sorpresi sia da quello che è stato incluso che da ciò che è stato omesso. Molto più modestamente, questo lavoro intende fornire ai tecnici gli elementi base relativi agli obblighi e alle soluzioni da impiegare, all’interno di un inquadramento generale più ampio, relativo ai temi e ai movimenti culturali che stanno fungendo come stimolo per il settore. Tutto ciò da utilizzare come punto di partenza per l’approfondimento dei temi più vicini alla politica e all’operatività delle attività che seguono.
Il motivo è semplice: la crisi pandemica e climatica stanno imponendo un cambio di passo. Non è più sufficiente parlare di salute, di sicurezza o di ambiente: occorre allargare lo sguardo e lavorare per fare in modo che le nostre organizzazioni diventino sostenibili e resilienti.
Dopo che avete messo in sicurezza la scena dove si è verificata la non conformità, è il momento di definire il tipo di indagine da sviluppare, per individuare le cause radice della deviazione. Allo scopo di non sprecare le risorse, come prima cosa è necessario esaminare le non conformità per valutare la possibilità di trarne delle indicazioni significative. Il massimo sforzo di indagine dovrebbe essere dedicato a quelle deviazioni che hanno provocato danni, alle persone e alle cose, ma anche a quelle che avrebbero potuto farlo. I cosiddetti alto potenziale. Per fare questo, è consigliabile definire un gruppo che si occuperà in modo formale dell’investigazione.
Quando una non conformità viene individuata o, peggio, accade un incidente, la prima cosa da fare è mettere in sicurezza l’area.
Se si tratta di un incidente è necessario soccorrere i feriti e allontanarli dai pericoli. Sono circostanze in cui una risposta efficace può essere sviluppata solo se le cose sono state pianificate in anticipo. Ebbene, è possibile che nel tempo che impiegherete per queste analisi, la non conformità che avete individuato, evolva in un incidente, con i connessi danni personali e materiali?
Qualification and working knowledge are like two ingredients of a cocktail. Take the Martini cocktail, James Bond’s favorite, “shaken, not stirred”. Would you be able to separate the gin from the vermouth? No.
And so, qualification and working knowledge come together to produce a taste that is a different thing: it has a little of one and a little of the other. We live in the real world, not in Ian Fleming’s fiction, and so our ingredients sometimes stir, when we got to plan our training to enable us to face professional challenges. Much more often, however, they mix vigorously, shaken, which is when we are forced to quickly learn how to succeed in an unexpected challenge.
But what is it that makes a mixture of liqueurs an iconic cocktail, and an expert and competent technician an appreciated professional? This is achieved by keeping the main ingredients under control and adding secondary ones. Let’s not forget that a good Martini cocktail also requires lemon zest, pitted olives, strictly green, ice. And taking care of the presentation. Would you ever dare to drink a Martini cocktail in a beer mug? Abomination!
If you have an extraordinary professionalism, then you could be a Vesper Martini, the first cocktail that James Bond ordered in Ian Fleming’s 1953 book, Casino Royale. It is named after the seductive double agent, Vesper Lynd, played by two beautiful women: Ursula Andress in the 1967 movie and Eva Green in the 2006 remake. A Vesper Martini is made up of gin, vodka, and Kina Lillet, a French liqueur made with wines from the Bordeaux region and macerated liqueurs. Unfortunately, it is no longer produced.
What do I mean by this bold alcoholic-cinematic metaphor? What do Ursula Andress and Eva Green have more than many other beautiful women? The word is: personality. Experience and skills are useless, if you are not able to rework them, to produce something new and yours. And how is this achieved? Testing yourself every day. Trying to improve. Finding your weaknesses to work on.
Do you think Eva Green (and Ursula Andress, in her day), leave home in the morning as they woke up? Maybe now yes. But they can afford it because they have worked on themselves for years. They worked on how to introduce themselves, how to walk, how to look, how to smile, how to talk, how to drink a glass of champagne, how to shake hands… They learned to put on make-up, to dress, to pose, to model, to act. They tested themselves because they wanted to improve themselves.
There it is. A good professional must certainly have qualification and working knowledge. But they are both things that you can buy, more or less cheaply. A good professional has a personality. He tackles work with the aim of doing a good service to his client, the people around him, and improving himself. He chooses professional challenges to become a better person. He can develop skills and experiences by producing something new.
Because, after all, you only live twice, and twice is the only way to live!