Questi cambiamenti colgono il segno? Danno una risposta alle aspettative che fasce sempre più larghe dell’opinione pubblica e del mondo del lavoro richiedono? Forniranno strumenti efficaci per la lotta contro gli infortuni? La risposta è semplice: no.
Le lacune culturali e di competenza dovute alle dimensioni delle aziende del nostro paese, impediscono spesso di comprendere appieno gli obblighi e gli obiettivi della normativa e, di conseguenza, ciò che viene richiesto ai professionisti diventa spesso solo un adempimento meramente formale, senza una vera protezione dei lavoratori. Una certa quota della professione, poi si è orientata a soddisfare richieste inadeguate, legando l’asino dove vuole il padrone, e rinforzando questa spirale negativa.
In generale, le protezioni delle parti pericolose di attrezzature ed impianti non devono essere rimosse. Il Decreto legislativo 81 del 2008 lo mette ben chiaro, ad esempio descrivendo gli obblighi del lavoratore: non rimuove o modifica senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo. Esistono quindi condizioni in cui questo è ammissibile. Lo standard UNI EN ISO 14118:2018 Sicurezza del macchinario – Prevenzione dell’avviamento inatteso, elenca dodici situazioni in cui può essere necessaria la presenza di persone in zone pericolose delle attrezzature o degli impianti. Sono le ispezioni, le azioni correttive come la risoluzione di bloccaggi e simili, le regolazioni, il carico e scarico manuale, la sostituzione degli utensili, la lubrificazione, la pulizia, lo smantellamento, le manutenzioni e le riparazioni, le prove e le verifiche, il lavoro sui circuiti di alimentazione e i lavori di manutenzione straordinaria.
Le procedure LOTO sono state create dall’industria per garantire un livello di sicurezza accettabile anche in quelle condizioni in cui occorre rimuovere le protezioni che prevengono il lavoratore di entrare in una prossimità che può diventare pericolosa, rispetto all’attrezzatura o all’impianto sul quale sta operando. LOTO sta per lock-out (blocca) tag-out, (installa una etichetta), e sono misure di sicurezza che si applicano quando si lavora su impianti o macchinari elettrici, meccanici o idraulici. Lo scopo di queste procedure è quello di isolare le fonti di energia pericolose e impedire che vengano riattivate accidentalmente o intenzionalmente durante le operazioni di manutenzione o riparazione. In sostanza, si blocca il dispositivo di avviamento dell’attrezzatura e dell’impianto con un lucchetto (lock-out) la cui chiave è in possesso di chi sta svolgendo l’intervento, e si colloca una etichetta che spiega che quella attrezzatura è disattivata per motivi di sicurezza (tag-out). Nel caso si tratti di una attrezzatura o un impianto complesso, sul quale dovranno intervenire più squadre, ogni squadra può applicare il proprio lucchetto (se non esiste sufficiente spazio sono in commercio blocchi che permettono di farlo) e l’attrezzatura potrà ripartire solo quando l’ultima di esse avrà rimosso il proprio, perché i lavori sono terminati.
Sostenibilità non è solo cieli azzurri e prati verdi: analizzare gli aspetti ambientali di una organizzazione in termini green è una cosa benemerita, ma non è sufficiente.
La sostenibilità richiede innovare gli stili di gestione, partendo dai processi produttivi e organizzativi per arrivare a considerare l’azienda come quella comunità umana che essa è sempre stata.
La morte di una persona che stava lavorando è una cosa immorale, sporca. Una comunità dovrebbe sforzarsi di tutelare le persone che lavorano, adottando le misure più efficaci e rifuggendo da facili e semplicistiche scorciatoie.
Tante nostre organizzazioni perseguono una compliance che ha poco a che fare con l’assicurazione di condizioni di lavoro sicure: in realtà mirano ad allinearsi a come gli adempimenti formali vengono attuati nel loro settore. Lo fanno con poco entusiasmo, perché esse stesse percepiscono queste attività come scollegate dalla concreta operatività e, per lo stesso motivo non si preoccupano di infrangerle.
Gli infortuni sul lavoro sono stati senz’altro uno degli argomenti dell’anno passato. L’incidente occorso a Luana D’Orazio, giovane operaia madre di un bambino di cinque anni, deceduta in seguito all’Impigliamento in un ingranaggio dell’orditoio che stava utilizzando, ha colpito l’opinione pubblica e da allora, dal 3 maggio 2021, le notizie sugli altri incidenti mortali avvenuti al lavoro sono uscite dalle cronache locali, per diventare un tema del dibattito politico.
Le cause degli incidenti sono state attribuite all’assenza o all’inefficacia della formazione dei lavoratori, alla mancanza dei controlli o a un sistema sanzionatorio percepito come non adeguatamente punitivo, nei confronti dei datori di lavoro responsabili di violazioni delle norme sulla tutela dei lavoratori. Per qualche settimana ci si è cullati con l’idea di istituire una Procura nazionale in materia di sicurezza sul lavoro ma poi, il 21 ottobre 2021, il Governo ha emesso il decreto-legge numero 146, convertito con la legge 215, che dedica il Capo III al «Rafforzamento della disciplina in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro», modificando in alcune parti il Decreto Legislativo 81 del 2008.
Dopo che avete messo in sicurezza la scena dove si è verificata la non conformità, è il momento di definire il tipo di indagine da sviluppare, per individuare le cause radice della deviazione. Allo scopo di non sprecare le risorse, come prima cosa è necessario esaminare le non conformità per valutare la possibilità di trarne delle indicazioni significative. Il massimo sforzo di indagine dovrebbe essere dedicato a quelle deviazioni che hanno provocato danni, alle persone e alle cose, ma anche a quelle che avrebbero potuto farlo. I cosiddetti alto potenziale. Per fare questo, è consigliabile definire un gruppo che si occuperà in modo formale dell’investigazione.
L’analisi delle cause degli incidenti è un processo ben definito dalle buone pratiche industriali. In caso di incidente il primo passo è quello di rispondere ai rischi immediati, soccorrendo le persone che sono state coinvolte e mettendo in sicurezza l’area….
Proviamo ad allargare lo sguardo. Nel 2008 è stato promulgato il Testo Unico, il decreto legislativo 2008. Quell’anno 1.104 infortuni mortali, che sono diventati 1.032 nel 2009 e balzati di nuovo a 1.464 nel 2010. Ma il Testo Unico non ha veramente cambiato le carte in tavola, fondamentalmente si è trattato di una riverniciatura del vecchio Decreto Legislativo 626 del 1994, quello che, adottando i principi della direttiva 89/391/CEE ha inteso modificare radicalmente il modo in cui si gestisce la sicurezza in azienda: da affare meramente tecnico a questione di politica e di organizzazione aziendale. Quanti infortuni mortali ci sono stati nell’anno che ha preceduto la sua entrata in vigore? 1.328. Per gli amanti delle cifre, nel 1994 in Italia sono state lavorate oltre 40 miliardi e mezzo di ore. Sono state quasi 43 miliardi nel 2016 (fonte: ISTAT). Forse ci siamo: adottare normative più avanzate non ha avuto nessun effetto.
Una lettura disincantata e documentata dei ventisette anni di applicazione delle direttive sociali, magari affiancandola allo studio dei paesi dove questi stessi concetti hanno avuto invece successo, potrebbe essere l’occasione per spezzare questa coazione a ripetere, la nostra tendenza come sistema a porci nelle presenti condizioni dolorose, senza che ci rendiamo conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze.
I near-miss sono eventi pericolosi che, per una combinazione di fattori spaziali e temporali, non hanno prodotto danni né alle cose né alle persone. Una delle condizioni più frustranti per un HSE Manager è quella di implementare un processo per la raccolta dei near miss: è molto difficile farlo funzionare, perché i lavoratori vedono la segnalazione dei near miss come una delazione o l’autodenuncia della loro stessa incapacità. Noi sappiamo che non è così, ma come possiamo fare?