Da diciassette anni l’articolo 97 del D.Lgs. 81/2008 giace nei cantieri come un soprammobile istituzionale: tutti sanno che c’è, nessuno lo usa davvero. La norma aveva osato immaginare un’impresa affidataria capace di governare la sicurezza, ma il settore ha risposto con una soluzione più pratica e meno impegnativa: trasformare il governo in modulistica e la responsabilità in carta protocollata. Nel frattempo la sicurezza si è difesa benissimo da sola, producendo verbali, firme e fotografie, ma senza mai arrivare a disturbare davvero chi decide.
L’Accordo Stato-Regioni del 2025 irrompe in questo equilibrio perfetto come un promemoria scomodo: forse dirigere un cantiere significa assumersi potere reale, non solo dimostrarne l’esistenza a posteriori. Il nuovo modulo cantieri non aggiunge solo ore di formazione, ma introduce un’idea quasi sovversiva: che la sicurezza sia una questione di organizzazione, leadership e scelte, non di check-list ben compilate. Se farà paura, non sarà per la norma in sé, ma perché ricorda al sistema che ignorare una legge per diciassette anni non la rende meno valida, solo più imbarazzante.
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Anche la più piccola deviazione mostra che il lavoro reale si sta staccando da ciò che il sistema prevede, e questo vale più della gravità della singola NC. Quando una anomalia ritorna, significa che non è più un episodio ma una prassi alternativa che funziona meglio della procedura scritta. La procedura, così, resta nei documenti mentre il lavoro prende un’altra strada, più rapida e più aderente alle pressioni quotidiane.
L’accumulo di queste piccole deviazioni allinea lentamente i “buchi” delle barriere, rendendo il sistema più fragile senza che nessuno se ne accorga. Per questo serve registrarle con continuità: non per cercare colpe, ma per non perdere il filo di ciò che si ripete. La gravità indica quando intervenire sull’evento, ma la frequenza delle NC minori indica quando il sistema sta iniziando a perdere presa. Se vuoi leggere l’articolo completo su Teknoring, clicca qui.
L’audit diventa utile quando smette di essere un rito amministrativo e inizia a leggere davvero come funziona un’organizzazione, mettendo in relazione ciò che è scritto con ciò che accade ogni giorno. Gli audit di certificazione verificano la presenza del necessario e attestano che il sistema sta in piedi, ma non dicono nulla sulla sua maturità, e proprio per questo non dovrebbero essere scambiati per uno strumento di crescita. Gli audit interni potrebbero essere l’occasione migliore per guardarsi con onestà, ma spesso si trasformano in una manutenzione della routine, fotografando sempre la stessa immagine senza interrogarsi su ciò che potrebbe funzionare meglio.
Quando interviene un professionista capace di interpretare i segnali, collegare i processi e leggere gli scarti, l’audit diventa una lente esterna che aiuta a capire non solo se qualcosa va, ma come potrebbe andare con più fluidità ed equilibrio. Il vero passo avanti nasce da domande che non confermano ciò che già si sa, ma aprono spazi di confronto, coinvolgono le persone e portano alla luce incoerenze, sprechi e opportunità che dall’interno restano invisibili. Se ogni audit racconta sempre la stessa storia impeccabile, non è segno di perfezione ma di un’osservazione troppo superficiale, perché solo chi cerca davvero i movimenti nascosti permette all’organizzazione di crescere e restare viva nel tempo.
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Certe abitudini di lavoro portano alcuni operatori esperti a ignorare protezioni e procedure, convinti che la familiarità con i rischi basti a controllarli. In realtà, l’esperienza può trasformarsi in un velo che attenua la percezione del pericolo, generando la normalizzazione della deviazione e l’errore “esperto”. Anche l’errore “generico”, legato a scarsa formazione o distrazione, produce lo stesso effetto: un calo della vigilanza quando manca un sistema di difese multiple.
La competenza individuale resta preziosa, ma da sola non garantisce nulla, perché basta una distrazione, una variazione nelle condizioni o una pressione improvvisa per far cadere l’equilibrio. La sicurezza funziona solo quando è costruita su più livelli – tecnici, procedurali e organizzativi – che si sostengono a vicenda e compensano gli inevitabili limiti delle persone. Un’organizzazione matura evita la solitudine operativa: nessuno dovrebbe contare solo sulle proprie capacità, ma su una rete di barriere e di responsabilità condivise.
Puoi leggere l’articolo Quando l’esperienza non è un fattore di prevenzione, ma elemento di esposizione al rischio? su Teknoring.
La sicurezza nasce come esigenza economica: l’industria capisce presto che ogni incidente pesa sulla produttività e sul bilancio, e questo principio rimane valido ancora oggi grazie anche a strumenti come il Safety Pays Estimator di OSHA, che mostrano quanto un singolo infortunio generi costi ben oltre la busta paga del lavoratore assente. Ad esempio, per un infortunio banale come la frattura di una gamba, l’azienda si trova a sostenere salari da integrare, burocrazia, straordinari, interinali e perdita di rendimento, mentre a queste spese si aggiungono attività amministrative interne, anticipi sanitari, rivalse, sanzioni e aumenti del premio INAIL.
Sommando tutto si superano facilmente i centomila euro per un incidente che, sulla carta, sembrerebbe ordinario, e questo dimostra che la prevenzione non è un costo da sopportare ma un modo concreto per proteggere sia la salute dei lavoratori sia la solidità economica dell’impresa.
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La sicurezza sul lavoro non è soltanto rispetto delle regole, ma una scelta etica che orienta ogni decisione di un HSE Manager. Superare la semplice conformità significa riconoscere che prevenire i rischi protegge le persone, l’ambiente e il futuro delle comunità. Anche quando entrano in gioco costi, tempi e pressioni produttive, l’etica rimane la bussola che indica la strada giusta.
Per questo l’HSE Manager non è solo un tecnico, ma un facilitatore culturale capace di diffondere consapevolezza, trasparenza e partecipazione. La coerenza tra principi dichiarati e comportamenti quotidiani è ciò che rende credibile e concreto ogni impegno sulla sicurezza.
La sicurezza sul lavoro è diventata parte integrante della reputazione aziendale, ma troppo spesso resta confinata alla comunicazione patinata più che alla sostanza. Molte imprese parlano di prevenzione con linguaggi inclusivi e campagne curate, senza però trasformare quei messaggi in comportamenti concreti sul campo. In questi casi si parla di “compliance di facciata”, dove le regole vengono rispettate solo nei documenti e nelle foto ufficiali.
Al contrario, le aziende che credono davvero nella sicurezza la integrano nelle decisioni strategiche, danno voce agli specialisti HSE e coinvolgono attivamente chi lavora. In queste realtà, la prevenzione non è un rituale o uno slogan, ma un processo collettivo che si misura nei dettagli e nelle azioni quotidiane. La differenza si vede quando la sicurezza diventa parte viva del business, non un semplice esercizio di immagine.
I social a volte sono veramente una piazza virtuale dove è possibile discutere davvero, confrontarsi su temi complessi e stimolanti. È proprio da uno scambio nato online, a partire da una riflessione sull’efficacia del nostro sistema di salute e sicurezza sul lavoro, che prende forma questo articolo. Un commento, una replica e poi altre considerazioni hanno fatto emergere un punto comune: in Italia la sicurezza rischia troppo spesso di ridursi a un esercizio di conformità, piegato alla logica delle norme e delle sentenze più che al loro scopo originario.
Da lì è nato il desiderio di approfondire, di rimettere in fila i piani che compongono la prevenzione – la pratica, gli standard, la legge e la giurisprudenza – per capire quale sia l’ordine corretto e cosa possiamo imparare dalle esperienze di altri Paesi.
La triplice ossessione italiana
Il sistema italiano della sicurezza sul lavoro, infatti, sembra vivere prigioniero di tre ossessioni parallele, che spesso si alimentano a vicenda e finiscono per indebolire l’efficacia complessiva. La prima è quella del legislatore, spinto da un’ansia regolatoria che porta a normare minuziosamente ogni aspetto, quasi sempre con la leva penale. È un approccio opposto allo spirito delle direttive europee, che puntano invece a responsabilizzare gli operatori lasciando margini di flessibilità organizzativa. In Italia, però, prevale l’idea che solo moltiplicando articoli, allegati e commi si possa garantire sicurezza. Il risultato è un corpus normativo ipertrofico, difficile da applicare e ancor più da interiorizzare. Diciamolo chiaramente: questo modo di procedere non riguarda soltanto la sicurezza sul lavoro, ma l’intero impianto legislativo del Paese. Una condizione sottile ma evidente di sfiducia del legislatore verso il cittadino, dove ogni intervento normativo sembra muovere da un presupposto negativo. Se si parla di tasse, l’idea di fondo è che il contribuente stia cercando di evadere. Se si parla di sicurezza, il punto di partenza è che l’imprenditore sia incline ad adottare pratiche inaccettabili. In entrambi i casi, il cittadino non viene visto come un soggetto da responsabilizzare, ma come un potenziale trasgressore da controllare e punire. Il risultato è un sistema che tende a moltiplicare regole e vincoli per ridurre al minimo i margini di discrezionalità, con l’effetto di alimentare la burocrazia e generare diffidenza reciproca. Da un lato lo Stato produce norme sempre più dettagliate per “prevenire” ogni possibile deviazione, dall’altro i cittadini sviluppano l’abitudine a considerare la legge come un ostacolo da aggirare, e non come uno strumento di supporto: un circolo vizioso che, nella sicurezza sul lavoro come in altri ambiti, riduce l’efficienza complessiva del sistema.
La seconda riguarda le parti sociali e, più in generale, il mondo del lavoro. La richiesta costante di “nuove regole” è quasi un riflesso automatico: si invoca la norma per ogni problema, salvo poi lamentarsi che le disposizioni siano calate dall’alto e scollegate dalla realtà produttiva. È accaduto recentemente con il nuovo Accordo Stato-Regioni sulla formazione, percepito da molti come un aggravio burocratico inutile, o con le ordinanze sul lavoro estivo, provvedimenti emergenziali che hanno aggiunto complessità senza portare reali benefici.
Infine, la terza ossessione è quella dei datori di lavoro, che troppo spesso identificano la prevenzione con la conformità. Essere “a norma” diventa il punto di arrivo, non il punto di partenza. Tutto ciò che non è richiesto esplicitamente dalla legge è percepito come opzionale, e ogni sforzo che vada oltre l’adempimento formale rischia di sembrare ingiustificato. In questo modo la cultura della sicurezza si riduce a un esercizio di compliance, con scarsa attenzione al vero obiettivo: prevenire infortuni e salvare vite.
Queste tre dinamiche intrecciate — il delirio burocratico del legislatore, la domanda ossessiva di regole delle parti sociali e la riduzione della sicurezza a semplice conformità da parte delle imprese — spiegano perché la percezione dei risultati resti spesso insoddisfacente. È l’opinione pubblica a ritenere che “non si faccia mai abbastanza”, e questo, in fondo, è un bene: significa che il tema rimane vivo e non scivola nell’indifferenza. Gli indici infortunistici, tuttavia, hanno mostrato un miglioramento importante negli ultimi decenni. Un progresso che non sembra dovuto al complicarsi dell’apparato normativo nazionale, quanto piuttosto a fattori esterni: l’azione dell’Unione Europea, che ha imposto standard più severi nella progettazione e gestione di macchine, attrezzature, sostanze pericolose e processi; l’apertura dei professionisti italiani a esperienze maturate all’estero e l’ingresso nel nostro Paese di operatori che hanno portato con sé le pratiche più avanzate del panorama internazionale.
In altre parole, i passi avanti più rilevanti non sono arrivati dalla giurisprudenza o dall’inflazione legislativa, ma dall’evoluzione tecnica e organizzativa, che ha reso concretamente più sicuri ambienti, strumenti e procedure di lavoro.
Quando si parla di sicurezza sul lavoro, si possono distinguere almeno tre piani diversi. Ognuno ha una sua logica interna, ma il problema nasce quando si confondono i livelli o, peggio, si rovescia la loro gerarchia naturale.
Il primo piano è la pratica del lavoro. Qui la sicurezza prende forma nella vita reale: nei cantieri, nelle officine, nelle linee produttive. È il dominio dell’esperienza diretta, della competenza, della capacità di anticipare un rischio.
Il secondo piano è quello delle norme. È l’universo di leggi, regolamenti, accordi e standard che definiscono ciò che “si deve fare”. È un patrimonio indispensabile, perché è la trasformazione in regola generale ciò che la pratica e l’esperienza hanno dimostrato essere efficace.
Il terzo piano è quello della legge, che interviene quando qualcosa è già accaduto. Qui si ricostruisce a posteriori la dinamica di un infortunio o di una malattia professionale, per stabilire responsabilità e colpe. È un livello inevitabile, ma ha un carattere retrospettivo: non serve a prevenire, ma a giudicare.
Il problema è che in Italia la sequenza naturale di questi piani è spesso capovolta. Si parte dalla giurisprudenza, che diventa fonte ispiratrice delle nuove norme, mentre la pratica del lavoro viene trattata come semplice destinataria passiva, che deve conformarsi a regole stabilite su altri tavoli. Così si producono condizioni pensate per resistere in tribunale, ma difficili da applicare sul campo. E chi lavora finisce schiacciato tra l’obbligo formale e la necessità reale, in un equilibrio precario che non sempre garantisce maggiore sicurezza.
Il primato della pratica
La sicurezza nasce nella pratica del lavoro, e questo è inconfutabile. È nella pratica del lavoro che i rischi si manifestano in modo concreto: per eseguire un’attività in sicurezza bisogna prima di tutto essere familiari con quell’attività. La competenza nasce dall’essere esperti, perché solo chi conosce a fondo le operazioni, gli strumenti e le condizioni in cui si svolgono, può cogliere i segnali che distinguono un’azione sicura da una potenzialmente pericolosa. A questa competenza tecnica si somma poi un secondo livello: la sensibilità analitica e l’atteggiamento cauto e riflessivo che guidano l’esperto nel tenere sotto controllo le condizioni operative. È in questo intreccio tra sapere pratico e capacità riflessiva che si diventa anche esperti di sicurezza.
La valutazione del rischio, oggi requisito normativo, rappresenta la codificazione di questo atteggiamento. Chi affronta un lavoro non si limita a definire il risultato da raggiungere, ma valuta anche come ottenerlo e quali problemi possano emergere lungo il percorso, allo scopo di prepararsi in anticipo. È la traduzione formale di un processo che l’esperienza insegna a compiere naturalmente: osservare, confrontare con situazioni analoghe già vissute, riflettere sulle variabili e anticipare le possibili conseguenze. In questo senso, la pratica non è un complemento alla sicurezza: ne è il presupposto. Solo da un lavoro conosciuto e padroneggiato può nascere una sicurezza autentica e consapevole.
Se la pratica costituisce il fondamento della sicurezza, gli standard operativi di settore ne sono la memoria collettiva. Non nascono da leggi o da tribunali, ma dall’osservazione e dalla condivisione delle esperienze, spesso maturate in contesti ad altissimo rischio. Il settore offshore è l’esempio più emblematico. Il disastro della piattaforma Piper Alpha (Mare del Nord, 1988), con 167 vittime, segnò una frattura irreversibile. L’indagine pubblica guidata da Lord Cullen, promossa dal Segretario di Stato per l’Energia del Regno Unito, non si limitò a stabilire responsabilità individuali: fu un’analisi sistemica che mostrò come il fallimento non derivasse da un singolo errore, ma da un insieme di lacune organizzative. Tra queste: autorizzazioni di lavoro non coordinate, procedure di isolamento inadeguate, scarsa integrazione dei sistemi di sicurezza, piani di evacuazione inefficaci.
Il Rapporto Cullen, pubblicato nel 1990, divenne una pietra miliare: raccomandava non solo miglioramenti tecnici, ma un cambio radicale nella gestione del rischio. Propose l’introduzione della safety case, documento con cui ogni operatore doveva dimostrare in anticipo di avere identificato, valutato e gestito tutti i rischi rilevanti della propria installazione. La risposta immediata non fu una legge calata dall’alto, ma l’azione concertata delle parti interessate del settore – compagnie petrolifere, società di ingegneria, organismi tecnici, sindacati, associazioni professionali – che elaborarono e adottarono nuovi standard di sicurezza. Tra questi:
i permit to work integrati, per gestire in sicurezza attività contemporanee;
procedure di depressurizzazione e isolamento rigoroso degli impianti;
sistemi di evacuazione e salvataggio ridondanti, capaci di operare anche in condizioni estreme;
la centralità della safety case come requisito di gestione e di accesso alle autorizzazioni.
Accanto agli aspetti tecnici, si comprese subito l’importanza della formazione standardizzata. Furono introdotti programmi comuni, riconosciuti a livello internazionale, come l’OPITO Basic Offshore Safety Induction and Emergency Training (BOSIET). Questo percorso prevede moduli obbligatori su evacuazioni in elicottero, sopravvivenza in mare, uso dei sistemi di respirazione d’emergenza, gestione del fuoco e del fumo. Sono standard che, pur nati senza una copertura legale immediata, sono divenuti rapidamente una condizione necessaria per lavorare offshore: imposti dalle compagnie come requisito contrattuale e adottati come prassi consolidata a livello globale. Oggi hanno trovato una formalizzazione normativa soprattutto nel Regno Unito, dove fanno parte integrante del quadro regolatorio post-Cullen, ma il settore li considera imprescindibili ovunque. La loro forza, infatti, non sta soltanto nella legge che li recepisce, ma nella credibilità tecnica e nella capacità di garantire livelli di sicurezza non negoziabili. Per questo, anche al di fuori del contesto britannico, sono applicati come standard de facto, trasformando l’esperienza in regole condivise e competenze comuni che hanno ridotto drasticamente il rischio e rafforzato la resilienza dell’intera industria. L’indagine Cullen ha quindi dimostrato che la sicurezza non può limitarsi a norme astratte o a controlli retrospettivi. Deve essere un processo proattivo, costruito da chi lavora e gestisce i rischi, capace di trasformare gli errori in standard e gli standard in patrimonio collettivo.
Dalla prassi alla legge: quando gli standard diventano obbligo
Gli standard operativi elaborati dai settori industriali non restano necessariamente confinati a linee guida o buone pratiche. Con il tempo, soprattutto quando hanno dimostrato la loro efficacia, vengono “adottati” dalle legislazioni nazionali o sovranazionali e trasformati in obblighi legali. È un processo che conferma il valore della memoria collettiva della pratica, elevandola a riferimento normativo generale. Un esempio particolarmente significativo è la gerarchia dei controlli (“Hierarchy of Controls”). Nata negli Stati Uniti già a partire dagli anni ’50-’60, grazie all’elaborazione di OSHA e NIOSH, serviva a fornire un criterio pratico e universalmente comprensibile per gestire i rischi: eliminazione del pericolo, sostituzione, misure di protezione collettiva (engineering controls), misure organizzative e procedurali, infine dispositivi di protezione individuale. Questo schema non era un’elaborazione giuridica, ma una sintesi pratica, costruita a partire dall’esperienza degli operatori industriali e dalla statistica sugli incidenti.
La sua efficacia portò rapidamente a un riconoscimento normativo. La direttiva quadro europea 89/391/CEE, all’art. 6 (comma 2, lettera b–h), ne ha recepito lo spirito, introducendo l’obbligo per i datori di lavoro di attuare la prevenzione seguendo una scala di priorità: eliminare i rischi, ridurli alla fonte, privilegiare le misure collettive rispetto a quelle individuali. Non si parla più di “applicare regole” ma di organizzare la prevenzione secondo una logica tecnica e progressiva. In Italia, questa logica è confluita nell’art. 15 del D.Lgs. 81/2008, ma – come spesso accade – in maniera più burocratica che sostanziale. La norma elenca i “principi generali di prevenzione” come una sequenza di obblighi formali, senza restituire la forza originaria della gerarchia come strumento dinamico di decisione tecnica. Il risultato è che ciò che è nato come criterio operativo per orientare le scelte è stato trasformato in un elenco di adempimenti, meno utile a guidare le decisioni reali nei luoghi di lavoro.
Un percorso analogo si ritrova nelle direttive europee sulle industrie a rischio di incidente rilevante. Dopo Seveso (1976) i settori interessati svilupparono nuove pratiche di analisi del rischio, pianificazione dell’emergenza e comunicazione con la popolazione. L’Unione Europea ha raccolto quelle esperienze trasformandole nella prima Direttiva Seveso (82/501/CEE) e nelle sue successive evoluzioni fino alla Seveso III (2012/18/UE). Ancora una volta, uno standard settoriale si trasformò in quadro normativo vincolante.
Lo stesso è avvenuto nell’offshore: le raccomandazioni dell’indagine Cullen, inizialmente recepite come standard tecnico, sono state inglobate nelle normative britanniche e poi nella Direttiva 2013/30/UE sulla sicurezza delle operazioni in mare. Questi percorsi mostrano la via più efficace: la legge non inventa regole astratte, ma riconosce e universalizza gli standard che hanno già dimostrato la loro efficacia nella pratica. L’Italia, al contrario, tende spesso a capovolgere il processo: invece di consolidare esperienze maturate sul campo, produce norme dettagliatissime con la speranza che possano trasformarsi in pratica. Ma l’esperienza insegna che il cammino inverso funziona molto meglio.
La giurisprudenza ha, quindi, un ruolo importante – ma inevitabilmente limitato – nella costruzione della sicurezza sul lavoro. Non è lì che nascono gli standard: la sua funzione è sanzionare, attraverso i meccanismi legali, la violazione di quegli standard di condotta che il mondo industriale e tecnico ha già elaborato. Il processo penale o civile interviene sempre dopo un infortunio o una malattia professionale, ricostruendo a posteriori la dinamica e valutando se il datore di lavoro o altri soggetti obbligati abbiano rispettato o meno le regole di prevenzione. È, per definizione, un approccio retrospettivo: non previene, ma giudica.
L’eterogeneità di alcune sentenze in materia non è casuale, ma riflette le differenze delle competenze dei periti di cui i giudici inevitabilmente si avvalgono. Siccome è raro che chi giudica abbia una conoscenza diretta del lavoro industriale, la ricostruzione si affida a pareri tecnici che non sempre sono uniformi. Così, a seconda dell’impostazione dei consulenti, la stessa dinamica può essere letta in modi diversi, e le decisioni risultano variabili, con conseguente incertezza per imprese e lavoratori. La dimostrazione sta nel fatto che, quando i gruppi professionali sono riusciti a imporre una certa lettura della sicurezza, la giurisprudenza ha progressivamente cambiato orientamento. Un esempio significativo è quello del Coordinatore per la Sicurezza in fase di Esecuzione (CSE): figura centrale, ma con funzioni limitate al controllo e al coordinamento dei rischi interferenziali, fu elevata da una sentenza poco felice al rango di “perno” della sicurezza in cantiere, con compiti sproporzionati rispetto al ruolo normativo previsto. Negli anni successivi, lo sviluppo della pratica professionale ha portato a un’evoluzione giurisprudenziale che lo ha progressivamente spinto verso una funzione di “alta sorveglianza”, più vicina allo spirito del legislatore, e quindi con aspettative e responsabilità profondamente ridefinite. È la prova che deve esserci rispetto dei perimetri delle varie discipline e che non è la legge a creare la tecnica, ma, semmai, la tecnica a precedere e orientare la legge.
In realtà, tutta la nostra legislazione può essere letta come una lunga glossa all’articolo 2087 del Codice Civile, che recita:
“L’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.”
Questa norma, introdotta nel 1942 e tuttora centrale, ha una forza straordinaria: non elenca adempimenti puntuali, ma rimanda direttamente all’esperienza e alla tecnica come criteri guida della condotta dovuta. È la conferma che il cuore della sicurezza non è nella norma scritta, ma nel riconoscimento delle migliori pratiche che il mondo industriale elabora e aggiorna. La legge, in questo quadro, non dovrebbe inventare regole nuove, ma verificare caso per caso se l’imprenditore abbia rispettato quegli standard che la comunità tecnica e professionale ha già consolidato. Quando questo equilibrio si spezza, e parlamento e tribunali si sostituiscono all’industria nel creare regole astratte, si smarrisce il nesso con la realtà del lavoro e si produce ulteriore incertezza, senza migliorare la prevenzione.
La misura non è l’obiettivo
Qui torna utile la riflessione del filosofo e guru del management Charles Handy, filosofo del management e docente alla London Business School, noto per aver introdotto concetti innovativi sull’organizzazione del lavoro, che spesso viene citato per la frase: “La misura non è l’obiettivo. Se trasformi la misura in obiettivo, ne perdi lo scopo.” La critica di Handy era rivolta a un approccio manageriale ossessionato dai numeri e dagli indicatori di performance, che finisce per far dimenticare il senso profondo del lavoro e compromettere la qualità e l’integrità del processo. La logica, però, si applica perfettamente anche alla sicurezza sul lavoro. Se l’attenzione si concentra esclusivamente sulla conformità formale a un metro di giudizio – che siano statistiche, audit o sentenze – si perde di vista la ragione per cui quelle misure esistono. Le norme, gli standard tecnici e persino le decisioni dei tribunali non sono fini a se stessi: sono strumenti. Servono a un unico scopo, che è proteggere la vita e la salute dei lavoratori.
Quando invece vengono trasformati in obiettivi autonomi – “dobbiamo essere conformi”, “dobbiamo resistere in giudizio”, “dobbiamo fare bella figura in audit”, “dobbiamo mostrare ai nostri elettori che siamo attivi e sensibili”, “dobbiamo punire un indagato” – il sistema si piega su sé stesso. Si costruisce un apparato che funziona solo per dimostrare di funzionare, perdendo di vista la realtà dei rischi e la sostanza della prevenzione. In altre parole, si tradisce il fine ultimo.
La lezione di Handy, applicata alla sicurezza, è semplice ma decisiva: non si lavora per “fare le carte” o per “allinearsi all’ultima sentenza”, o per “mostrare di essere inflessibili”. Ma per evitare che le persone si facciano male o si ammalino. Tutto il resto – norme, procedure, controlli, misurazioni – ha senso solo se rimane collegato a questo scopo.
Verso sistemi più maturi
Guardando all’esperienza internazionale, emerge con chiarezza che i sistemi più efficaci sono quelli che hanno saputo mantenere un equilibrio coerente tra pratica, standard e legge, evitando di trasformare la giurisprudenza nel motore della prevenzione. Nel Regno Unito, dopo il Rapporto Cullen sul disastro della Piper Alpha, la sicurezza sul lavoro è stata ripensata secondo un modello proattivo. La legge ha assunto la funzione di dare l’indirizzo generale: pochi principi chiari, formulati in modo tale da non diventare rapidamente obsoleti. Le specifiche tecniche, invece, non sono state rigidamente codificate nella legge, ma gestite a livello regolamentare e settoriale, spesso in maniera autonoma dalle parti interessate: associazioni datoriali, organizzazioni sindacali, organismi tecnici indipendenti. Questo ha permesso di creare un corpo di norme volontarie, elaborate dagli stessi operatori del settore, che però con il tempo sono diventate de facto obbligatorie. La loro forza non deriva soltanto dall’adozione industriale, ma anche dal comportamento della magistratura, che ha progressivamente preso a riferimento questi standard nei giudizi. In questo modo, ciò che nasce come buona pratica condivisa tra le parti sociali acquista automaticamente valore cogente, senza bisogno di moltiplicare leggi e regolamenti. Si crea così un sistema dinamico, in cui il legislatore stabilisce i principi generali e il mondo tecnico-industriale ne traduce i contenuti operativi, con la garanzia che le corti, in caso di contenzioso, si richiameranno a tali standard come misura della condotta dovuta.
Questa impostazione è stata confermata vent’anni dopo dal Löfstedt Report (2011), commissionato dal governo britannico per valutare l’efficacia del sistema. Il rapporto ha messo in evidenza che l’impianto normativo era in gran parte adeguato, proporzionato e ben strutturato, ma spesso mal percepito dagli operatori, che tendevano a sovrainterpretarlo in chiave burocratica. La raccomandazione centrale è stata quindi di semplificare il linguaggio e la struttura delle norme, ridurre duplicazioni e sovrapposizioni, e rafforzare la coerenza applicativa senza introdurre nuovi obblighi. Un esempio concreto è stato la revisione delle Construction (Design and Management) Regulations – CDM, recepite inizialmente nel 1994 dalla direttiva europea 92/57/CEE sui cantieri temporanei e mobili. L’edizione 2015 ha semplificato il quadro in più direzioni: ha eliminato la figura del “coordinatore puro”, trasferendo le sue funzioni a progettisti e imprese esecutrici; ha introdotto una chiara differenziazione tra committente domestico e committente professionale, alleggerendo gli obblighi del primo e rafforzando la responsabilità gestionale del secondo; ha reso più lineari i ruoli e le procedure, rafforzando la logica della responsabilità condivisa tra chi progetta e chi realizza. In questo modo, la normativa è stata resa più comprensibile e praticabile, senza ridurne l’efficacia. Il Löfstedt Report ha quindi mostrato un punto essenziale: non servono norme sempre nuove, ma norme chiare, proporzionate e coerenti, percepite come strumenti di prevenzione e non come pesi burocratici.
I Paesi Bassi hanno seguito un percorso analogo, con un modello di “autonomia responsabile”: le imprese sono state chiamate a organizzare la sicurezza secondo le proprie specificità, ma devono dimostrare di avere applicato standard tecnici riconosciuti e buone pratiche. La legge ha definito i principi generali, mentre la sostanza è stata affidata all’interazione tra mondo industriale e mondo tecnico.
Non è un caso che questi due paesi, da anni hanno gli indici infortunistici più bassi tra tutti i paesi europei (e al mondo). In Italia, invece, sembra valere la regola opposta: se un sistema non funziona, allora lo si complica. Un nuovo decreto, un allegato in più, un acronimo da imparare… e ogni volta il politico di turno porta all’elettore il suo topolino normativo, come un gatto compiaciuto che mostra la preda. Peccato che, intanto, la sicurezza resti più un esercizio di memoria burocratica che un reale impegno di prevenzione.
Un sistema più maturo dovrebbe invece ribaltare la logica diffusa nel nostro paese: la pratica al primo posto, con la competenza dei lavoratori e dei tecnici come radice della sicurezza; gli standard industriali come patrimonio collettivo di competenze, da consolidare e diffondere; la legge come riconoscimento e universalizzazione di ciò che funziona; la giurisprudenza come strumento di garanzia, chiamata a sanzionare chi devia da regole già note e condivise.
Occorre smettere di moltiplicare norme o inseguire l’ultima sentenza: ciò che serve davvero è ricostruire il legame tra esperienza, tecnica e responsabilità. Solo così la sicurezza può svilupparsi per essere ciò che deve: un processo vivo, capace di adattarsi ai contesti, e non un fascicolo di carte pensato per i tribunali. L’obiettivo non è accumulare adempimenti, ma proteggere i lavoratori con le soluzioni che tecnica ed esperienza rendono disponibili. In questo modo la conformità alle norme non è più un vincolo formale, ma la naturale conseguenza di un sistema che funziona.
In caso di emergenza, la differenza tra ordine e caos dipende dalla coerenza della catena di comando. Il datore di lavoro e i dirigenti hanno l’obbligo di pianificare una risposta strutturata, assegnando ruoli e responsabilità con chiarezza. Quando la struttura organizzativa è solida, le decisioni vengono prese e trasmesse con rapidità, garantendo un’azione efficace e coordinata.
Al contrario, un’organizzazione frammentata rischia di alimentare incertezza, reazioni scoordinate e situazioni pericolose. L’articolo propone esempi concreti di gestione delle emergenze che mostrano quanto una catena ben definita possa fare la differenza.
Da un tragico episodio – l’incidente aereo Air India – emergono riflessioni profonde sulla salute mentale e lo stress correlato al lavoro, soprattutto in ambienti critici come la cabina di pilotaggio. Questa vicenda invita a considerare come la pressione operativa e la stanchezza possano trasformare la cabina in una trappola silenziosa, con conseguenze anche fatali. Si esplorano le responsabilità aziendali nella gestione del rischio psicosociale e il bisogno urgente di strategie preventive.
Il confronto tra pratiche attuali e modelli di sicurezza suggerisce che non bastano controlli tecnici se manca un approccio integrato alla salute mentale. Emergenza di protocolli efficaci, formazione specifica e supporto organizzativo diventano protagonisti di questa analisi. Un’introspezione a tutto tondo sulle sfide che coinvolgono piloti, management e sistemi di sicurezza moderna.